L'esilio |
Lo storico deuteronomista descrive la storia di Israele come un continuo disubbidire alla legge di Dio e al patto con lui stipulato, questo portò al castigo che era ora l'esilio. Con la fine di Giuda c'è la fine dell'indipendenza politica, fino adesso nonostante era stato vassallo, almeno aveva avuto un proprio re, una propria autonomia politica anche se limitata e quindi la possibilità di riavere l'indipendenza, come all'epoca di Giosia, ora però tutto era finito. La dinastia davidica non c'era più, il re Ioiakin, sul quale Israele poneva le sue speranze dopo un po' di tempo morì, senza che si fossero avverate le speranze che erano state riposte in lui. Israele resterà per più di quattro secoli senza un re e senza una propria vita politica. La monarchia dopo la grande epoca davidica e salomonica divenne un fattore di decadenza, trascinando Israele in guerre con grandi potenze, che finirono male il più delle volte. Nonostante ciò le tribù di israele continuarono a restare unite sul suolo palestinese, anche se oramai non erano più libere. A tenerle unite e a differenziarle fu la loro fede, l'arca era stata distrutta, ma ora era passata in seconda linea, il tempio fatto costruire da Salomome era distrutto, ma la santità era comunque legata al luogo non all'edificio. Le tribù non conservarono naturalmente la loro integrità, infatti le classi dirigenti erano state deportate, e queste classi deportate erano state l'elemento guida fino a quel momento in campo politico e intellettuale. I deportati erano circa ventimila persone, gli esiliati appartenevano alla classe alta della società, erano sacerdoti, profeti, funzionari di corte, artigiani capaci di costruire armi. I deportati quindi si consideravano la parte migliore di Israele, questo viene detto più volte nelle Cronache, probabilmente in polemica contro i samaritani. I babilonesi non dispersero i deportati ma li insidiarono in nuclei compatti. I deportati avevano le loro borgate in cui abitare: potevano costruire case, piantare giardini e mangiare frutti, sposarsi e sposare i propri figli (Ger 29,5 ss.). Così i deportati raggiunsero in breve tempo una certa prosperità, nonostante ciò l'esilio è vissuto come una delle più grandi catastofi per tutti i motivi di cui abbiamo parlato prima. Si sentivano estranei a questa terra, una terra impura, qui non potevano praticare il loro culto, il loro pensiero era quindi proiettato a Gerusalemme e c'era nostalgia si questa città (Sal 137,5). Sia Geremia che Ezechiele cercano di mantenere viva la speranza di riavere la propria terra, ed Ezechiele avvia addirittura un programma di ricostruzione del tempio e del suo culto. Il capo di questo Stato che si formerà non porterà più il titolo di Re ma di principe, sottomesso alle esigenze del culto. Nel periodo dell'esilio probabilmente acquistarono un valore particolare la circoncisione, l'osservanza del sabato e altri segni visibili come le regole alimentari. In patria invece si faceva sentire di più il trauma della distruzione del santuario. Godolia iniziò subito un programma di ricostruzione, invitando a partecipare i superstiti. Il governo di Godolia consentì alla regione di recuperarsi almeno economicamente, ma durò poco, venne infatti ucciso da Ismaele, che faceva parte di un complotto, di cui facevano parte anche gli Ammoniti, alleati di Sedacia (2 Re 25,25; Ger 40,11-41,10). Forse Ismaele pensava che in questo modo la popolazione si sarebbe rivoltata e liberata dall'occupante, ma questo non avvenne, la situazione andava bene a buona parte della popolazione, alcuni contro il parere di Geremia preferirono la fuga e si rifugiarono in Egitto, temendo la collera dei Babilonesi e portarono con sè contro la sua voglia anche il profeta Geremia (Ger 42-43). La città, come hanno confermato anche gli scavi archeologici, ormai era un nucolo di macerie e vi erano rimasti soprattutto i poveri che avevano beneficiato della distribuzione delle terre, tra i pochi rimasti alcuni appunto dopo la morte di Godolia decisoro di andarsene in esilio volontario. Lo scenario non è però così negativo, il tempio non è completamente distrutto tanto che qualche culto ancora avviene. Di questo periodo non abbiamo molte informazioni, infatti tutte el persone autorevoli erano state deportate. Le notizie che abbiamo di Geremia ci parlano come abbiamo detto di un'attività relisiosa che continua nel Tempio nonostante la sua distruzione. Il libro delle Lamentazioni parla di un popolo accasciato, incapace di reagire.
Interpretazioni dell’esilio
Tra le prime interpretazioni significative, che hanno aperto la comprensione teologica dell’esilio, c’è sicuramente Ez 11,14-16 “[14]Allora mi fu rivolta questa parola del Signore: [15]«Figlio dell'uomo, ai tuoi fratelli, ai deportati con te, a tutta la casa d'Israele gli abitanti di Gerusalemme vanno dicendo: Voi andate pure lontano dal Signore: a noi è stata data in possesso questa terra. [16]Dì loro dunque: Dice il Signore Dio: Se li ho mandati lontano fra le genti, se li ho dispersi in terre straniere, sarò per loro un santuario per poco tempo nelle terre dove hanno emigrato”. I versetti successivi fino al 21 sono legati a questo, in questi si prospetta l’immagine di un popolo fedele che ricondotto da Dio nella terra promessa, eliminerà ogni forma di idolatria; infine riecheggia la promessa che annuncia il dono divino del cuore nuovo e dello spirito nuovo, mentre nell’ultimo versetto si prospetta il giudizio che cadrà su coloro che continuano nell’idolatria. I vv. 17-21 non sono autentici, riflettono il lavoro di almeno due reinterpretazioni teologiche successive. La prima di queste presenta la realtà del popolo, che si è ricostituito a Gerusalemme e in Giuda, come il compimento della promessa salvifica del Signore. La seconda è più recente e riflette la lotta per l’autenticità della fede e l’eliminazione dal popolo di ogni forma di idolatria. I vv. 14-16 presuppongono una situazione antecedente la conquista di Gerusalemme e la distruzione del tempio. Si tratta quindi di un detto che è stato pronunciato prima del 586 e che riflette la situazione che si era determinata dopo il 597, quando una parte considerevole degli abitanti di Gerusalemme era stata deportata nella Babilonia. Secondo la concezione tradizionale, Israele poteva vivere la propria identità di popolo dell’alleanza nella terra che apparteneva al suo Dio, terra che aveva nel tempio di Gerusalemme il segno della presenza regale e salvifica di Dio. In quest’ottica, la separazione, non significava solo una lontananza dagli affetti familiari, ma dal Signore stesso, era un vivere in una terra impura dove non era possibile un rapporto autentico con Dio. In quest’orizzonte il detto del profeta acquista un motivo ulteriore di sofferenza. Gli abitanti di Gerusalemme sono paghi di vivere nella terra data da Dio, e in questa illusoria sicurezza dimenticano anche i loro fratelli che sono lontani dal Signore. Qui si vede la novità del messaggio di Ezechiele, infatti, il Signore stesso è diventato santuario per i fratelli deportati. Il santuario di Gerusalemme da Giosia era il luogo scelto dal Signore per far dimorare il suo Nome. Ezechiele dice che questa presenza non si ha solo nella città santa di Gerusalemme, questa presenza è invece ovunque ci siano fratelli che appartengono al popolo del Signore. La presenza di Dio non è data dal luogo ma dalla consapevolezza interiore di appartenere al Popolo di Dio. Per la prima volta si afferma, nella tradizione biblica, che la presenza di Jahvè non è collegata a un luogo, ma unicamente al popolo, anche se questo popolo è stato allontanato dalla sua terra a causa della sua infedeltà. La parola di Ezechiele non solo sostenne i primi deportati, ma dischiuse anche una prospettiva teologica che sarebbe stata di sostegno e orientamento nei decenni successivi alla caduta di Gerusalemme e alla distruzione del Tempio. L’esilio da luogo che poteva determinare il tramonto di Israele diventa lo spazio nel quale il popolo scoprì, in modo più profondo, le ricchezze della propria identità. Un’altra pagina decisiva per la comprensione teologica dell’esilio è quella di Ez 20, il cui messaggio risale al 591, il settimo anno dalla prima deportazione. Ezechiele si rivolge a un gruppo di anziani di Israele che erano venuti da lui a cercare Jahvè, volevano sapere se il Signore avesse rivelato qualche profezia. Il profeta dice che Dio non offre una promessa di salvezza superficiale, un semplice ritorno a Gerusalemme e inizia una profonda riflessione sulla storia di Israele. Prima parla dell’infedeltà dei Padri (Ez 20,5-9), poi dell’infedeltà della generazione dell’esodo (Ez 20,10-17), l’infedeltà di quella sorta nel deserto (Ez 20,18-26), e infine dell’infedeltà nella terra data da Dio (Ez 20,17-29). Nelle prime tre la ribellione è stata tale da attirare l’ira di Jahvè, che non ha agito alla distruzione del popolo solamente perché il suo Nome non fosse profanato agli occhi delle genti, infatti come risulta chiaramente in Ez 36,16-23, Israele ha la missione di annunciare il Nome di Jahvè. Il carattere singolare e la potenza del Dio di Israele si manifestano quando il suo popolo vive autenticamente il dinamismo dell’esodo e la solidarietà dell’alleanza. Con la sua infedeltà Israele viene quindi meno al compito di essere testimone per le genti, ha profanato il nome di Jahvè perché con la sua infedeltà impedisce alle genti di conoscere la potenza salvifica di Jahvè. Secondo la tradizione biblica, il signore è fedele al suo popolo e quindi non sceglie un altro popolo per manifestare alle genti la sua santità., se Israele viene meno alla sua missione il Signore non potrà essere conosciuto dalle genti. Il Signore anziché distruggere il suo popolo, lo libera dall’Egitto, le rinnovate cadute degli uomini provocano come conseguenza la dispersione del popolo tra le genti, dispersione che secondo i vv. 23-24 era già stata annunciata dopo l’uscita dall’Egitto, nel deserto. Anche questa volta il Signore non consentirà che Israele perda la sua identità e si perda tra le genti, il Signore sta per condurre Israele nel deserto dei popoli, il popolo è quindi chiamato a sviluppare la sua fedeltà a Jahvè in questa situazione. Anche Ez 36,16-32 annuncia la promessa divina e la futura trasformazione interiore del popolo del Signore. I vv dal 16 al 21 parlano dell’accusa rivolta al popolo, i vv. 22-32 approfondiscono la prospettiva dell’evento salvifico. Quando il popolo era nel paese, lo rese impuro con le sue azioni, i termini puro e impuro nella tradizione sono correlati all’ambito cultuale, non morale, con questi termini si indica la situazione di chi può, o non può, celebrare il culto. Qui i termini puro e impuri ricorrono in modo metaforico essi connotano il fatto che il popolo giunge, o è impedito di giungere, a quella comunione vitale con il Signore, che è espressa nel culto. Con la sua infedeltà il popolo perverte il dono di Dio della terra. La terrra impura è quella che al popolo non appare più segno evidente della fedeltà di Jahvè. E’ a causa di questa terra resa impura che si è venuto maturando l’esilio. Anche se questo esilio è conseguenza dell’infedeltà del popolo, il continuo di questa situazione costituirebbe una profanazione del Nome del Signore, in quanto indurrebbe le genti a pensare che il Dio di Israele non ha una potenza superiore a quella degli altri dei. Il Signore ha cura del suo nome santo, Egli quindi non rinuncerà a manifestarsi sulla terra tramite il suo popolo. Questa affermazione costituisce il fondamento della solenne promessa con cui il profeta annuncia che il Signore santificherà il suo Nome, che è stato profanato. Come anche per Ez 20 non si tratta di un semplice ritorno a Gerusalemme, infatti Ezechiele con un chiaro richiamo alla nuova alleanza di Ger 31,31-34, dice che il Signore rinnoverà ulteriormente il proprio popolo con un cuore nuovo e uno spirito nuovo. Liberato dal cuore di pietra, il popolo riceverà un cuore di carne, un’interiorità capace di comunione con il Signore e con i fratelli, il dono dello spirito nuovo è identificato con l’effusione dello Spirito di Jahvè. Solo mediante questa trasformazione operata da Jahvè si dischiude il futuro del suo popolo e si realizzerà pienamente la comunione dell’alleanza. La promessa del cuore nuovo e dello spirito nuovo è collegata a quella che il Signore purificherà il suo popolo e lo salverà da tutte le sue impurità. Il popolo che ha reso impura la terra e profanato il Nome del Signore, sarà purificato e riceverà il cuore di carne e lo Spirito del Signore. C’è quindi in questi testi la certezza che il Signore agirà per il suo Nome e quindi non permette che la sua ira si sviluppi fino a sterminare il suo popolo ribelle. L’esilio quindi non è solo il tempo dell’ira ma principalmente il tempo dell’agire del Signore che nella fedeltà al suo disegno agisce per trasformare il popolo. L’ira del Signore è un epressione metaforica con la quale si connota la sua totale e assoluta avversità al peccato. L’espressione implica il fatto che il peccatore si trova in una situazione che conduce irrimediabilmente alla sua morte. La fedeltà del Signore connota la potenza della sua incomparabile salvezza che vince l’infedeltà del popolo. E’ la potenza che assicura la vittoria della vita sulla morte. Altro tema di Ezechiele è quello della regalità divina, per il quale Jahvè regna su Israle e proprio per questo non consentirà che questo perda la sua identità e diventi come le genti (Ez 20,33). La realtà divina è quindi la garanzia dell’intervento salvifico nei confronti del popolo. Anche il tema della speranza ebbe una grande influsso sulla successiva tradizione. La certezza che il Signore agisca per il suo Nome orienta il popolo ad un futuro di salvezza. E’ il futuro in cui il Signore regna e trasforma il suo popolo dandogli un cuore nuovo e uno spirito nuovo. Nell’esodo la speranza è quella della terra in quanto è la sua meta, acquista ora una connotazione sempre più simbolica. Essa indica la condizione del popolo salvato da tutte le sue impurità. Questa prospettiva viene sviluppata dalla tradizione successiva. Il libro di Isaia si muove nell’orizzonte della nuova Sion e presenta il monte del tempio del Signore come la meta di tutti i popoli, che accoglieranno il signore e non si eserciteranno più all’arte della guerra (Is 2,2-5). |