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Rinascita Carolingia

La riforma ec­clesia­stica fu accompagnata da una rina­scita culturale che fece conve­nire a corte gli uomini di cultura più illustri del suo tempo


La nascita dell'impero carolino significò la de­fini­tiva rottura fra Oriente e Occidente: l’imperatore Michele I, nell'812, riconobbe ufficialmente Carlo come imperatore del­l'Imperium occidentale e gli inviò ambasciatori ad Aquigrana.

Alla rottura politica seguirà quella religiosa, con lo scisma aperto da Fozio (858-892) e consumato da Michele Cerulario (1054).

L’ulteriore risvolto fu la conciliazione defi­nitiva dell'elemento ro­mano con l'elemento barbarico. Va tuttavia pre­cisato che l'impero carolingio non è di ispirazione romana, ma germa­nica: così nella concezione patrimoniale dello Stato (giova ricordarlo: diviso una prima volta da Carlo Magno, nell'806, tra i suoi tre figli Carlo, Pipino e Lodovico; morti prematuramente i primi due, Carlo stesso co­ronò imperatore il superstite Lodovico), nella confu­sione fra diritto pubblico e diritto privato, nella prevalenza del diritto personale sul di­ritto territoriale.

Le varie nazionalità sottomesse, più che uno stato uni­tario, co­stituivano una unione personale, dove ciascun popolo (Franchi, Longobardi, Sassoni) manteneva la propria fisio­nomia, le proprie con­suetudini e tradi­zioni.

Carlo Magno volle un governo burocratico centralizzato. Lui stesso divise il terri­torio in un certo numero di mis­satica -cioè ispettorati- comprendenti ciascuno un numero varia­bile di contee e marche­sati -quest'ultimi, ai confini- e sot­topose queste cir­co­scrizioni a due missi dominici -di norma un conte e un ve­scovo- do­tati di ampi poteri e di vaste attribuzioni. Talora i proceres -i grandi- di qualche regione ve­nivano riuniti in assem­blee (campi di maggio) dove Carlo co­municava le sue vo­lontà (capitolari). Sin dal primo capitolare egli si preoccupò di migliorare le condizioni della Chiesa nel regno franco, rafforzando l'autorità del ve­scovo e favorendo la formazione del clero. Questa indubbia­mente era la condizione indispensabile per un risollevamento ge­nerale della vita cristiana.

Le prescrizioni capitolari lasciano però inten­dere che dai candidati al sacer­dozio bisognava pretendere sola­mente l'esatta comprensione del Credo e del Pater Noster, la cono­scenza dei penitenziali e dell'ordi­nario della messa, la capa­cità di leggere più o meno in latino e di com­mentare in lingua vol­gare (romana, o theodisca) il Vangelo domenicale, l'interpre­tazione dei riti essenziali del battesimo e degli altri sacra­menti, nonché i co­man­damenti della Chiesa. La predicazione si riduceva alla lettura commentata di qual­che omelia del passato e, per venire in­con­tro ai sacerdoti in cura d'anime, tenuti pertanto a predicare, si provvide a redigere degli omeliari, compilazioni di ser­moni tratti dai Padri. Le più diffuse furono le raccolte di Paolo Diacono e di Alcuino. Per fa­vorire la riforma del clero Carlo impose ad alcuni chierici la vita comune in canoniche, presso le chiese, secondo la riforma iniziata da Crodegando, cancelliere di Carlo Martello e poi vescovo di Metz (712-766).

Numerosi ecclesiastici furono chiamati a corte, come consi­glieri e collabora­tori del sovrano, mentre nella città il vescovo era strettamente unito al conte -il rappresentante diretto del re- nello svolgimento degli uffici. Ordinò l'istituzione di una scuola e di un ospizio presso ogni cat­tedrale.

Carlo non solo fondò nuovi mona­steri, ma a lui va anche il me­rito di aver restaurato la regola bene­dettina: uniformò infatti la vita dei monasteri prescri­vendo che tutti seguissero le regole di s. Benedetto (+817), abate del mona­stero di Aniane (Francia meridionale), il se­condo fondatore del­l'Ordine benedettino.

La 'conversatio' -cioé la giusta con­dotta che Benedetto da Norcia esigeva dai mo­naci- con Benedetto di Aniane si tra­sformò nella 'conversio', intesa come seconda nascita del­l'uomo, compimento e perfezionamento della vita umana iniziata col battesimo. Il monaco doveva essere un uomo nuovo, con un nome nuovo ed una nuova lingua: ad Aniane si parlava soltanto la­tino, si di­menticava la lingua ma­terna; mentre le mura del chiostro se­paravano i rinnovati dai battezzati rimasti del mondo e ai quali facevano del bene con le preghiere e con il sacrificio della messa, senza mescolarsi con le faccende del mondo. Non più dunque una conce­zione di vita monastica culturale, bensì ascetico-religiosa che ripropone la fuga mundi, una ri­forma di cui è debitore il rinnova­mento religioso di Cluny, di un se­colo posteriore. Durante la cor­reggenza di Ludovico il Pio, Aniane divenne il cen­tro religioso del paese; finché dopo la morte di Carlo la regola ben­dettina da Aniane si propagò in tutte le contrade franche.

Carlo inoltre restaurò la liturgia, secondo le consuetudini romane. A tal fine, verso il 785, mandò a chiedere a papa Adriano un esemplare del Sacramentario gregoriano; questo tuttavia non poteva bastare, così com'era, alle esigenze della liturgia di ordina­ria amministrazione, poiché era stato compilato ad uso del papa, quando officiava lui; per cui fu necessario integrarlo, attingendo al Sacramentario gelasiano, che già da tempo circolava in Francia. Alcuino rielaborò il tutto nel Rituale Romanorum, in seguito intro­dotto anche a Roma e rimasto in vigore fino al Vaticano II.

Carlo inoltre assicurò il sostentamento del clero nelle parrocchie rurali, le quali di norma non avevano rendite immobili, con la riscossione della decima (imposta su tutte le terre, a favore delle chiese par­rocchiali, decima che è durata più di mille anni).

La riforma ec­clesia­stica fu accompagnata da una rina­scita culturale che fece conve­nire a corte gli uomini di cultura più illustri del suo tempo fra cui Paolo Diacono, lo storico dei Longobardi; Alcuino, ispira­tore della fiori­tura culturale ca­rolingia; Eginardo, biografo di Carlo Magno e Ràbano Mauro (+856) arcivescovo di Magonza, impor­tante compi­latore esege­tico.

Mentre genio del secolo di Carlo fu sant’Agostino: la sua Civitas Dei fu il libro preferito da Carlo e anche il vangelo dell’Accademia palatina, della quale fu anima Alcuino. Dell’Accademia palatina, una scuola e un centro di teologia, Carlo si valse per fare studiare e defi­nire le contro­versie dottrinali del tempo. In Carlo l’ideale agostiniano si coniuga con il modello di imperatore incarnato da Costantino. Stretto è il parallelismo tra il Costantino storico e Carlo. Come Costantino fondò Costantinopoli, così Carlo sistemò la residenza di Aquisgrana, dove introdusse il cerimoniale di corte e il simbolismo di Stato, ispirati alla metropoli bizantina.

Carlo, accanto alla cattedrale, previde un sacrum palatium del re e un terzo edificio col nome di Lateranum, casa del pontefice, come la chiama Eginardo. Il modello è quello della nuova-Roma, di cui Carlo è il sublime imperatore, incoronato da Dio. Nel progetto di Carlo, v'era dunque il desiderio di tra­sferire la Roma antica ad Aquisgrana, secunda (tertia) Roma.

Al Concilio di vescovi franchi e longo­bardi riunito da Carlo a Francoforte, nel 794, si trattò il culto delle immagini e l'adozionismo.

Quanto al culto delle im­magini, il si­nodo si pose però -come sopra è stato notato- con­tro i decreti del concilio ecumenico Niceno II (787) cui aveva ade­rito papa Adriano I. Giustamente, invece condannò l'adozio­nismo, un'eresia nota sin dal primo cri­stia­nesimo e ora sostenuta da Elipando, primate di Toledo e difesa da Felice, vescovo di Urgel, nella Marca spagnola, allo scopo di combattere gli errori cristolo­gici che confondevano le due na­ture in Gesù, per cui avevano chiamato Gesù "figlio adottivo per l'u­ma­nità, figlio non adottivo per la divinità". Mentre al concilio di Aquisgrana (novembre 809) fu trattata la questione del fi­lioque, un'aggiunta nel Simbolo del concilio di Toledo (589), che tut­tavia esprimeva una dottrina professata sia in Oriente che in Occidente, passata in uso in Occidente, ma non a Roma. Ad un preciso quesito del sinodo di Aquisgrana, papa Leone III dichiarò che la dottrina espressa nel Filioque era or­todossa, ma non volle inserirla nel te­sto del Simbolo, come richie­devano i legati franchi, per non alterare l'antica e ve­ne­randa for­mula di fede.

La rinascita culturale continuò sotto i regni di Ludovico il Pio e di suo figlio Carlo il Calvo, alla cui corte operò Scoto Eriugena (Eriin = Irlanda, + 877), il miglior conoscitore della teologia greca in Occidente e il traduttore dello Pseudo-Dionigi, con il quale vennero introdotte, nel Medioevo, idee neoplatoniche-panteizzanti, per cui tutto infine ritorna a Dio.

Verso la fine del sec. IX la cultura però decadde a motivo delle difficili condi­zioni politiche e delle inva­sioni. Nel frattempo aveva anche perso il suo ruolo l'ufficio dei missi do­minici, in quanto era stato feudalizzato, divenendo ap­pannaggio della nobiltà laica ed ecclesiastica, passando così da fattore di unità e di sviluppo, a forza che operò in senso decen­tralizzatore.