Pravilegium estorto da Enrico V
Lo scontro tra Pasquale II ed Enrico V, il papa prigioniero.
L'imperatore aveva acconsentito di disinteressarsi delle elezioni episcopali, a condizione che i beni annessi alle diocesi tornassero alla corona. Ma non fu sincero: abilmente preordinò la reazione dell'episcopato feudale e fu inflessibile nel far recedere, anche psicologicamente, il papa dal proposito di riportare la Chiesa alla libertà dell'evangelismo in nome della stessa libertà della Chiesa.
Le cose andarono così. I testi dei due privilegi vennero presentati a Enrico V, che allora si trovava a Sutri. Il re li ratificò il 9 febbraio, ma con la riserva che le clausole riguardanti l'investitura fossero accettate dai vescovi tedeschi. I due documenti si sarebbero poi dovuti scambiare il giorno dell'incoronazione imperiale. Per intanto si accontentò di giurare che avrebbe garantito la sicurezza del papa. Ma fu una mossa perfida quella di Enrico V: era infatti sicuro che i prelati tedeschi si sarebbero ribellati perché il concordato ledeva i loro interessi materiali.
Conclusesi le convenzioni, Enrico V proseguì la marcia su Roma e si presentò a S. Pietro per la cerimonia dell'incoronazione, fissata per il 12 febbraio. Ma durante la funzione, alla richiesta del papa di presentargli il suo decretum con la rinuncia all'investiture, Enrico V si rifiutò, appellandosi al rifiuto opposto dai vescovi e dai principi tedeschi.
Pasquale II, sospese allora la cerimonia dell'incoronazione e, incurante delle minacce, proseguì la celebrazione della s. messa. Il papa fu fatto allora prigioniero in S. Pietro dai tedeschi, con l'intenzione di costringerlo con la forza a ratificare le pretese imperiali dell'investitura dei vescovi. Ma il giorno dopo scoppiò una rivolta dei Romani, duramente repressa dopo tre giorni di combattimento. Enrico, non sentendosi però sicuro, si ritirò con il suo esercito fuori Roma, portando prigioniero Pasquale II e i suoi cardinali.
Prigioniero per due mesi a Trebicum (Tribucco in Sabina) e sotto la minaccia di terribili rappresaglie, anche contro la chiesa, per evitare mali maggiori Pasquale II promise di dichiarare, con un solenne editto, che il re aveva il diritto di dare l'investitura ai vescovi e agli abati, a condizione che fossero eletti senza simonia e liberamente, ma con il consenso regio.
Riferisce la Chronica monasterii Casinensis che Pasquale II, nel riconoscere il privilegium sull'investitura laica di Enrico V, avrebbe detto: "sono costretto per la liberazione e la pace della Chiesa a sopportare questo, a permettere ciò a cui in nessun modo acconsentirei per salvare la mia vita".
Il privilegio, che reca la data 11 aprile 1111, concedeva al re l'investitura laica, accettando che vescovi e arcivescovi si limitino ad avere la libertà di consacrare canonicamente i vescovi e gli abati investititi dal re, al fine placare i dissensi della maestà regia sulle investiture:
"i predecessori di Enrico V avevano infatti così arricchito le chiese del regno di tante loro regalie, da dover fondare il regno stesso sulla forza dei vescovi e degli abati".
Pasquale II concedeva due cose a Enrico V: l'assensus regio precedente l'elezione canonica e l'investitura con l'anello e il pastorale. Così l'elezione del clero e del popolo e la stessa consacrazione del metropolita si riducevano ad una mera formalità.
Il partito imperiale sconfiggeva pertanto quello della riforma gregoriana che aveva chiesto una Chiesa indipendente dall'autorità civile. Mentre era stata riconosciuta ed approvata dalla Santa Sede, ad onta dei decreti di Gregorio VII e di Urbano II, la teoria dell'investitura, quale l'aveva definita l'ecclesiastico di Liegi nel Tractatus de investitura episcoporum.
Domenica 13 aprile Enrico V si fece incoronare in S. Pietro, ricevendo, dopo la comunione, il privilegium papale e, al termine della cerimonia, si fece dare dai Romani il titolo e la corona di patricius: che significava i diritti dell'impero sul papato, così come aveva fatto Enrico III, nel 1046.
Prevedibile la reazione gregoriana, del resto già iniziata durante la prigionia di Pasquale II. Il privilegio si chiamò subito pravilegium. Pasquale II però, a lungo, tenne fermo alla promessa fatta ad Enrico V, finché cedette alle insistenze che gli venivano da ogni parte e annunciò il proposito di ritirare il privilegium.
A tal fine convocò un concilio, apertosi il 12 marzo 1112 al Laterano, presenti più di cento vescovi. Il papa, in pubblica assemblea, pur di non violare il giuramento fatto, fece una professione di fede in cui dichiarava di accettare o condannare tutto quello che avevano accettato o condannato i concili ecumenici e i suoi predecessori Gregorio VII e Urbano II, in particolare i decreti sull'investitura laica, senza tuttavia nominare il privilegium. Dopo di che il concilio cassò il privilegium estorto da Enrico V.
Il papa, dopo il concilio del 1112, si occupò dell'Italia meridionale, tenendo concili a Benevento (1113), Ceprano (1114), Troia (1115). Nel 1116 di nuovo convocò un concilio al Laterano, in cui si affrontò anche la questione di Enrico V.
L'imperatore, che nel frattempo era stato scomunicato da numerosi concili [i primi quelli di Vienna (1112) e di Gerusalemme], proprio mentre si apriva il concilio, era sceso in Italia per rivendicare i possessi che la contessa Matilde (+ 24 luglio 1115) aveva lasciato alla Chiesa romana, e se ne impossessò.
Il papa, nel concilio romano del 1116, rinnovò la condanna del privilegium estortogli, ma non acconsentì alla richiesta di Brunone di Segni il quale voleva che si dichiarasse che il pravilegium era un'eresia appunto l'haeresis de investitura, al pari delle eresie nicolaitica e simoniaca; ma ciò avrebbe significato tacciare di eretico anche il papa il quale neppure volle scomunicare Enrico V.
Morte di Pasquale II e scisma
Il re di Germania era rimasto a lungo nell'alta Italia e, al principio del 1117, richiesto dal prefetto e dai consoli, si avvicinò a Roma. Pasquale II, memore della precedente esperienza del 1111, si ritirò allora a Benevento anche perché la situazione a Roma era precaria. Il 30 marzo 1116 era infatti morto il prefetto di Roma e i suoi fautori volevano che l'ufficio fosse dato a suo figlio, mentre il papa voleva favorire il figlio di Pierleone che gli era assai devoto; un movimento popolare si pronunciò però contro il suo candidato e a favore di Cencio Frangipani.
Enrico V entrò a Roma senza difficoltà, non riuscì però a farsi coronare da un cardinale e dovette accontentarsi di Maurizio Burdino, l'arcivescovo portoghese di Braga, di passaggio a Roma che lo incoronò in S. Pietro. Questi, in compenso, si guadagnò una scomunica dal concilio di Benevento, presenti 113 prelati presieduti dal papa. Quivi Pasquale II cercò l'aiuto dei Normanni e così pote' tornare a Roma, ma solo per morirvi alcuni giorni dopo (+ 21/I/1118). Fu sepolto al Laterano perché i consoli non permisero che fosse sepolto in Vaticano.
Gli successe il card. Giovanni di Gaeta, cancelliere della Chiesa romana, che prese il nome di Gelasio II (1118-1119); venne però subito fatto prigioniero da Cencio Frangipani. Liberato da Pierleone potè prendere possesso del Laterano, ma essendo ancora diacono bisognava aspettare le Tempora di primavera (il 9 marzo) per l'ordinazione sacerdotale e la successiva consacrazione episcopale. Ne approfittò Enrico V che, da Verona, scese a Roma, dove entrò di nascosto tra il primo e il due marzo. Gelasio allora lasciò la città e si diresse a Gaeta dove fu ordinato sacerdote e consacrato vescovo.
Enrico V, rimasto padrone di Roma, intimò a Gelasio II di rientrare in città per ricevervi la consacrazione pontificale. Ricevutone un diniego, l'imperatore fece allora eleggere e consacrare papa, Burdino, l'arcivescovo di Braga che prese il nome di Gregorio VIII. Questi fu scomunicato il 7 aprile, a Capua, insieme ad Enrico V, scomunica ripetuta in Germania da Conone di Palestrina, legato papale al concilio di Colonia (19 maggio), con l'approvazione dei vescovi tedeschi. Ciò costrinse Enrico V a lasciare l'Italia (giugno 1118) e a tornare in Germania, abbandonando l'antipapa.
Gelasio riuscì così ad entrare a Roma per la festa del 29 giugno, ma senza potersi insediare al Laterano tenuto dall'antipapa. Non sentendosi sicuro, nel settembre, Gelasio lasciò Roma, diretto in Francia. Giunse fino a Cluny, dove decedette (1119).