Il monachesimo
Il termine monaco -che deriva da monos, nel significato di solitario; da cui monaco ricorre nella traduzione della Bibbia detta dei Settanta
Il termine monaco -che deriva da monos, nel significato di solitario; da cui monaco (furono indistintamente usati anche i termini viri dei; e per le monache, sanctimoniales, virgines)- ricorre nella traduzione della Bibbia detta dei Settanta, mentre nella letteratura ecclesiastica è usato per la prima volta nel significato tecnico -che diverrà tradizionale- da Eusebio di Cesarea (+ c. 340). Tra gli occidentali, s. Girolamo (+ 420) è il primo che adoperi la forma latinizzata di monachus. Prima di lui, la ricordata pellegrina Egeria, nel racconto delle sue peregrinazioni, aveva usato anche il termine monazontes variante latina di monacos, e di parthene nel significato di vergini, termini che però non ebbero fortuna.
I monaci sono continenti (continentes, virgines), asceti (da àschetaì), anacoreti (da anacotéin = ritirarsi; più tardi eremita, da érmos = deserto) che continuano la tradizione dei combattenti per la fede instaurata con il martirio e si distinguono dai pastori e dai laici perché sono dei segregati, remoti.
Il monachesimo nasce in Egitto
Il monachesimo neotestamentario è una creazione dell'Egitto cristiano, dove fu favorito dal clima e dal deserto.
Narra Eusebio di Cesarea come, durante la persecuzione di Decio (c. 250), alcuni cristiani d'Egitto, dinanzi alle minacce, fuggirono nel deserto della Tebaide. Passato il pericolo, alcuni preferirono rimanervi e fu l'inizio della vita eremitica. Più tardi, dopo la pace costantiniana quando, con la conversione in massa del mondo pagano si abbassò il tono eroico dell'antica vita cristiana, molti fedeli di nuovo scelsero la via del deserto per mantenere altissimo il livello morale ereditato dall'era dei martiri. All'ideale del martirio cruento si sostituì così quello della vita ascetica.
Prima figura storicamente accertata di eremita cristiano è l'egiziano Antonio (+356 ca.), il patriarca del monachesimo, uomo di preghiera e lottatore contro il demonio, di cui s. Atanasio (+373) scrisse la Vita Antonii, definita da s. Gregorio Nazianzeno una "regola monastica sotto forma di racconto".
All’origine della singolare esperienza di Antonio c’è l’ascolto della parola di Dio. Narra Atanasio come Antonio, all’età di 18/20 anni, divenuto orfano, entrò in chiesa dove ascoltò il passo del Vangelo che dice, “se vuoi essere perfetto, va, vendi tutto quello che possiedi e dallo ai poveri; poi, vieni, seguimi e avrai un tesoro nei cieli” (Mt 19, 21). Entrato di nuovo in chiesa udì l’altro passo; “non preoccupatevi del domani” (Mt 6, 34). Antonio, come più tardi s. Francesco d’Assisi, considerando le ricchezze come un impedimento per chi ha scelto come unico bene di stare acccanto a Dio; per questo, sull’esempio degli apostoli , vendette tutto quello che possedeva e si dedicò alla vita ascetica, dapprima poco fuori del villaggio, dove viveva; a questa seguirono altre tre “fughe” che lo spinsero a cercare una solitudine sempre più grande. Nel deserto Antonio si dedicò alla vita ascetica, sottoponendosi a una dura disciplina. Lavorava con le proprie mani, “parte del suo lavoro gli serviva per procurarsi il pane, parte lo distribuiva ai poveri”. Pregava continuamente, leggeva e mandava a memoria le Scritture. La memorizazione delle Scritture sarà una pratica largamente diffusa nel deserto egiziano. L’Historia monachorum , che è un viaggio tra le comunità dei monaci dell’Egitto fatto nel 394/395 da sette giovani di Gerusalemme, testimonia che diversi solitari del deserto egiziano conoscevano a memoria l’Antico e il Nuovo Testamento. Il demonio cercò allora di distogliere Antonio dalla vita monastica; da parte sua Antonio rispondeva con continue preghiere, con la “ruminazione” delle scritture durante tutta la giornata, anche nel tempo occupato dal lavoro. Un giorno però Antonio passò all’attacco e si rinchiuse in un sepolcro, lontano dal suo villaggio -all’epoca i sepolcri erano ritenuti le abitazioni del demonio- per affrontare il demonio nella sua dimora, sfidandolo con la parola di Dio e la preghiera dei salmi. Dapprima il demonio chiamò i suoi cani, immagine del male, poi assunse la forma di animali feroci: “e subito il luogo si riempì di immagini di leoni, di orsi, di leopardi, di tori, di serpenti, di vipere, di scorpioni e di lupi; il leone ruggiva come se volesse assalirlo, il toro pareva prenderlo a cornate, il serpente strisciava, ma senza raggiungerlo, il lupo si lanciava su di lui, ma veniva trattenuto” (VA, 8). Le fiere, che appaiono ad Antonio, probabilmente suggerite dai dipinti delle tombe stesse, rimandano tuttavia alle belve cui erano consegnati i martiri cristiani durante le persecuzioni. Antonio ha sete del martirio, vuole testimoniare la sua fede fino al sangue e, vedendo nella sua immaginazione queste fiere, comincia a predisporsi al martirio, quello incruento dei monaci. Del resto narra Atanasio che, durante la persecuzione ad Alessandria, Antonio lasciò il deserto e andò a visitare i cristiani che, in carcere, attendevano la morte. Li consolava, li confortava, senza temere le minacce dell’autorità e quando cessò la persecuzione se ne ritornò nel deserto, ritirandosi nel suo eremo dove visse il “martirio della coscienza” (VA, 46). Di nuovo si tornerà a parlare di animali, ma in un altro contesto: novello Adamo, Antonio vive in comunione con tutte le creature. Sul monte, che ha scelto come sua dimora, coltiva un piccolo orto e nei primi tempi le bestie del deserto vengono là e danneggiano quello che egli aveva seminato e coltivato. Allora Antonio si rivolge a una di quelle bestie dicendo: «perché mi fate del male, mentre io non ve ne faccio? Andatevene e nel nome del Signore non avvicinatevi mai più in questo luogo. E da quel momento, come se temessero il suo comando, non si avvicinarono più» (VA, 50).
Alcuni asceti, desiderosi di fuggire dal mondo per entrare in un contatto ininterrotto con Dio, si unirono ad Antonio, ormai vecchio, per averne il consiglio e la direzione; si originò così una comunità di anacoreti senza regola e stabilità, tutta incentrata sul prestigio personale di Antonio, divenuto loro padre spirituale.
Malati e sofferenti, indemoniati accorrevano nel deserto per implorare da Antonio la guarigione. Atanasio colloca la maggior parte dei miracoli del santo, dalle guarigioni alle profezie, segno della presenza di Dio in lui, nell’ultimo peridodo della sua vita, quando si era ritirato nella regione più interna del deserto, su di una montagna.
Il monachesimo In Palestina
Il monachesimo egizio fu un movimento di laici, cui in seguito presero parte anche sacerdoti. Questi, dall'Egitto, passarono in Palestina, dove si affermò come laura, una forma promiscua dei due sistemi di monachesimo (eremo e monastero /anacoretismo e cenobitismo).
Le laure (laura = vicus), costituite dall'unione di più celle in ognuna delle quali abitava un anacoreta, erano delle colonie dove i monaci vivevano in celle diverse -somiglianti agli agglomerati ascetici giudaici di Qumràm- sotto la guida di un abate. I laurioti si adunavano solo il sabato e la domenica per celebrare l'ufficio divino e la liturgia eucaristica e ricevere la comunione.
E, come si è detto, il monachesimo di Palestina, divenne polo d'attrazione dei pellegrini. Scrive s. Girolamo (Vita Pauli, Malchi, Hilarionis), che il Signore Gesù, se in Egitto aveva il vecchio Antonio, in Palestina (Gaza) aveva Ilarione, di lui più giovane, e fra di loro in corrispondenza (XIV). Ilarione, uomo di grande penitenza, nei suoi spostamenti era accompagnato da un’infinita schiera di monaci (i monaci che mangiarono l’uva di Saba erano tre mila!, XXV). Presso Ilarione accorrevano vescovi, preti, matrone, folle di laici; per evitarli si inoltrò nel deserto, come Antonio, di cui fu emulo e successore.
Due le laure più famose: quella di S. Eutimio (+ 473) e la Laura Grande, nei pressi di Gerusalemme, poi detta di s. Saba (+ 532), dal suo più illustre abate. A s. Saba si attribuisce un "Typikon" il quale contiene circa 150 articoli disciplinari oltre che varie prescrizioni liturgiche: un testo che, dopo molti rimaneggiamenti, è divenuto una specie di calendario universale per molte comunità d'Oriente.
Le Regole del monachesimo in Oriente
Quattro le più celebri regole per monaci: in Oriente quelle di s. Pacomio e di Basilio; in Occidente, quelle di s. Agostino e di s. Benedetto.
Il merito di aver scritto la prima regola per monaci spetta a s. Pacomio (+346). Egli, un ex militare, verso il 320 fondò a Tabennisi sul Nilo, nella Tebaide (alto Egitto), il primo monastero (monastérion) o cenobio (coinòbion): una casa costruita da più celle e recinta da un muro. A questa comunità diede pure una regola, scritta in lingua copta e divenuta modello per le successive. Questa regola, tradotta in latino da s. Girolamo nel 404, comprende quattro gruppi di prescrizioni monastiche: Praecepta; Praecepta et Instituta; Praecepta atque Iudicia; Praecepta ac leges. Vi si stabiliscono norme per la preghiera -le pratiche di pietà; per il vitto, per il lavoro manuale e la disciplina. Notevole la prescrizione di mandare a memoria tutto il Nuovo Testamento e il libro dei Salmi. Il capo spirituale, al quale i monaci debbono obbedienza incondizionata, si chiama abate, cioé padre.
Maestro e padre del cenobitismo orientale è però Basilio il Grande (+379), arcivescovo di Cesarea in Cappadocia; nonostante che il santo non sia il fondatore di un ordine religioso, tuttavia con la sua vita e con i suoi scritti di spiritualità ha dato al monachesimo un'impronta indelebile. La sua concezione della vita monastica è un'evoluzione di quella di Pacomio, ma risente anche delle influenze del monachesimo di Palestina. Gli si attribuiscono due regole monastiche, scritte intorno al 360 - nota in occidente fu il Parvum ascetikon, tradotto da Rufino di Aquileia- (203 questiones cui Basilio risponde). Oltre che sull'ideale contemplativo, si insiste sul valore educativo della vita comune, sulla cura delle anime, su una formazione culturale superiore, nonché sullo studio della teologia.
Nonostante i santi asceti e l'austerità di vita, il monachesimo di Siria non ha dato una regola che abbia influito in maniera unica su una larga cerchia di asceti. Va ricordata però la regola di Rabbûlâ (+ 436), già monaco e poi vescovo di Edessa. E' un riassunto della legislazione ascetica precedente.
Vita quotidiana e devianze
I monaci, quasi tutti laici, vestivano una tunica nera, con cintura di cuoio e, sopra, una pelle di pecora o di capra con cappuccio. Loro occupazione: lavori manuali e preghiera.
Non di rado, accanto ai monasteri maschili, furono eretti monasteri femminili per ragioni di sicurezza, di cura animarum, ma anche economiche. Attesi i pericoli, il sinodo di Provenza nel 506 e l'imperatore Giustiniano (529 e 546), proibirono i monasteri doppi. Questo tipo, entrato però in Occidente, sopravvisse sino alla fine del Medioevo, anzi nel sec. XII ci fu un nuovo periodo di fioritura.
In Italia vennero monaci basiliani della Santa Montagna (Monte Athos) che accentuava i presupposti di Basilio sulla dignità della persona umana, sull’obbedienza e sulle opere di misericordia.
Accanto alle forme organizzate di monachesimo non mancarono degenerazioni vere e proprie; tali: i sarabaiti o remoboth che vivevano in celle a due o a tre, senza superiori e regola fissa; i girovaghi che vagabondavano da un monastero all'altro; i pascolanti che in Siria vagavano senza posa per le campagne e si nutrivano di erbe. Sorsero anche forme particolari di anacoretismo, quali gli inclusi o reclusi che si facevano rinchiudere o murare a lungo o per sempre in una cella, un'ascesi che verrà trapiantata in Occidente dove sopravviverà sino al XVI secolo, sia in campo maschile, sia in quello femminile. Non ebbero invece successo in occidente altre esperienze orientali, come quella degli stiliti, cioé santi della colonna: il primo è s. Simeone (+459) che passò 30 anni su una colonna, presso Antiochia, alta 40 cubiti; e l'altra degli acemeti, cioé gli insonni di Costantinopoli che, divisi in parecchi cori, pregavano ininterrottamente.
Il monachesimo in occidente
L’Occidente conobbe il monachesimo orientale tramite s. Atanasio di Alessandria, sia in occasione del suo esilio a Treviri (335/8), sia con la Vita Antonii; mentre le prime forme di monachesimo risalgono al III secolo .
All'introduzione e alla diffusione contribuirono s. Girolamo, venuto a Roma nel 381 che, oltre a praticare lui stesso l'eremitismo, lo difese anche in campo letterario (Vita Pauli, Malchi, Hilarionis); Giovanni Cassiano con i suoi scritti (Le Istituzioni e Le Conferenze); e s. Martino vescovo di Tours, nella Gallia, dove eresse il primo monastero d'Occidente, due secoli prima di Benedetto. Mentre, a Roma, il primo monastero fu eretto presso S. Sebastiano in cathacumbas, ad opera di Sisto III (432-40). Assai tardi invece vennero in Italia monaci siri e monaci della Santa Montagna (Monte Athos), basiliani che avevano adottato l'indirizzo di s. Teodoro Studita (+ 825) che accentuava i presupposti di Basilio sulla dignità della persona umana, sull'obbedienza e sulle opere di misericordia.
A dare un'impronta indelebile e decisiva al monachesimo d'Occidente furono s. Agostino e s. Benedetto.
S. Agostino, il quale deve la sua conversione alla lettura dell'opera di sant'Atanasio, in particolare alla vita di S. Antonio, scrisse la Regula ad servos Dei, la quale esercitò un notevole influsso su s. Cesario di Arles e su s. Benedetto da Norcia. S. Cesario fu il primo a scrivere, verso la metà del sec. VI, una regola per sacre vergini, oltre che una regola per monaci.
Non meno significativa l’esperienza portata avanti da Cassiodoro (+583), senatore romano che, sotto Teodorico il Grande (re d’Italia dal 493 al 526) occupò le cariche di Stato più elevate, adoperandosi per conciliare e accordare romanesimo e germanesimo. Verso il 540 si ritirò, in Calabria, nel monastero di Vivarium, da lui fondato, dove si dedicò alle pratiche di pietà e all'attività letteraria. E' autore delle Institutiones divinarum et saecularium lectionum che contengono una metodologia dello studio teologico e un avviamento alle sette Artes liberales. Scrisse inoltre una Historia ecclesiastica tripartita (un sommario di storia della Chiesa, testo assai apprezzato nel Medioevo), la Storia dei Goti e per i suoi monaci opere di edificazione spirituale, tra cui l’ Expositio Psalmorum, composta tra il 538-548, unico commento della patristica latina all’intero salterio.
Erano questi gli anni in cui Dionigi il Piccolo (appellativo adottato per umiltà), monaco scita, venne a Roma (496-555) per tradurre le tavole dei cicli pasquali di Cirillo d’Alessandria con i calcoli della Pasqua, proseguendoli fino al 626. Per la prima volta computò gli anni della nascita di Cristo, dicendola avvenuta nel 753 dalla fondazione di Roma, ma fu un calcolo errato. Questo è anche il tempo di Benedetto da Norcia.
Benedetto da Norcia (480-547/48), per aver riordinato il monachesimo d’occidente , ebbe l’appellativo di patriarca del cenobitismo occidentale. Della sua vita sappiamo solo quello che ci deriva dal II libro dei Dialoghi di Gregorio Magno, il quale si era però documentato presso quattro discepoli del santo: Costantino, suo successore a Subiaco; Valentiniano, superiore al monastero presso il Laterano; Simplicio, terzo successore di Benedetto e Onorato quarto successore che conobbe il santo nel primo periodo della sua vita religiosa.
Papa Gregorio racconta che quest’uomo, “benedetto di nome e di grazia”, nacque a Norcia. Giovanetto, fu dai genitori mandato a Roma per farlo studiare. Disgustato tuttavia della corruzione dei costumi della città, Benedetto, insieme alla nutrice, se ne fuggì per ritirarsi a Subiaco, “ricca di abbondanti acque”. Abbandonata quindi la sua nutrice, si ritirò in una “stretta e scabrosa spelonca”, inizialmente conosciuta solo da Romano, il monaco che lo assisteva, portandogli, di tanto in tanto, del cibo. Quivi Benedetto, fu tentato dal demonio, sotto forma di un uccello piccolo e nero, un merlo. Benedetto vinse la tentazione “spogliandosi delle sue vesti e gettandosi nudo tra le spine dei rovi e le foglie brucianti delle ortiche”. Di lì a poco si presentò a Benedetto la piccola comunità di eremiti i quali vivevano nei dintorni, acconsentendo di esserne l’abate. L’esperienza fu tuttavia breve, perché quegli eremiti, rozzi e malvagi, tentarono di avvelenarlo, per cui Benedetto se ne ritornò alla sua grotta. Di lì a poco però fondò dodici monasteri, a ciascuno dei quali propose un proprio abate e molti nobili romani cominciarono ad accorrere a ad affidargli i propri figli. Tra costoro Gregorio ricorda Mauro e Placido, oggetto di miracoli del Santo, episodi immortalati da Magister Conxolus, pittore della seconda metà del secolo XIII che eseguì il ciclo con le storie di s. Benedetto nella chiesa inferiore del Sacro Speco di Subiaco. Intorno al 529 Benedetto se ne partì da Subiaco e si recò a Cassino, situato sul fianco di un monte, dove sorgeva un tempio dedicato ad Apollo e un bosco consacrato a Venere. Quivi giunto, dopo aver abbattuto il tempio pagano e distrutto il bosco, Benedetto eresse un oratorio dedicato a S. Martino e costruì un altare in onore di s. Giovanni. Ebbe così origine il celebre monastero, culla e centro dell'Ordine Benedettino. Quivi, nel 542, venne Totila, il re goto che, muovendo alla conquista di Napoli, aveva invaso la Campania e il Sannio. A Totila il santo predisse che di lì a dieci anni sarebbe morto.
Non lontano dal monastero di Cassino, lungo la valle detta Primarola, stazionavano due nobildonne che conducevano vita religiosa. Dopo la loro morte si ritirò quivi Scolastica sorella dell'abate, animata dagli stessi sentimenti e divenuta forse superiora di quel monastero. Un giorno si recò a trovarla suo fratello con alcuni monaci e trascorsero insieme la giornata intera “nelle lodi di Dio ed in santi colloqui”. Al calare della sera presero un po' di cibo per poi tornare ciascuno al proprio monastero. Ma Scolastica disse a suo fratello: “non lasciarmi per questa notte, ma fermiamoci fino al mattino, a pregustare, con le nostre conversazioni, le gioie del cielo”. Benedetto rispose che non poteva pernottare fuori del monastero; fu tuttavia trattenuto da provvidenziale tempesta. Tornarono, all’indomani, ambedue al proprio monastero. Scolastica tre giorni dopo morì; era il 10 febbraio 543.
Poco più di un mese dopo la seguì anche suo fratello Benedetto. Sei giorni prima della morte il santo si fece aprire la tomba; passò i restanti giorni in preda a una febbre altissima. Il sesto giorno si fece trasportare nell’oratorio, dove prese il viatico; quindi, “sostenendo le sue membra prive di forze, tra le braccia dei discepoli, in piedi, colle mani levate al cielo, tra le parole della preghiera, esalò l’ultimo respiro”. Era il 21 marzo 543.
L'eredità di s. Benedetto è la Regola (Regula Monachorum) che porta il suo nome e inizia con le parole “Ausculta, o fili, praecepta Magistri”.
Divisa in 73 capitoli, la prima parte è di carattere prevalentemente spirituale: presentazione di essa, dell'abate, del monastero, del consiglio (Prologo-III); catalogo delle buone opere (IV); trattati sulle tre virtù principali: obbedienza, taciturnità e umiltà (V-VII). La seconda parte è piuttosto istituzionale e disciplinare: codice liturgico (VIII-XX) e penitenziale (introdotto quest'ultimo da un direttorio dei decani, XXI-XXX); regolamento per la vita econonica, i pasti e il sonno (XXXI-XLII); codice della soddisfazione (XLIII-XLVI); divisione del tempo fra preghiera, lettura, lavoro, comprese in quest'ultimo le uscite (XLVII-LII); accoglienza degli ospiti e dei doni i quali introducono la questione della rinuncia alla proprietà e del vestiario (LIII-LVII); rinnovamento della comunità sia con l'aggregazione di nuovi membri (LVIII-LXIII), sia con l'insediamento d'un nuovo abate e del suo priore (LXIV-LXV); porta, clausura e uscite (LXVI-LXVII). Fanno da chiusura un'appendice riguardante le relazioni fraterne e l’epilogo (LXVIII-LXXIII).
Questo codice, composto su incarico di papa Agapito (535-36), e redatto nel corso di tre decenni (535-560 ca.), quindi oltre la morte del santo, è rimasto, fino al secolo XIII, l'unica regola in vigore nei monasteri d'Occidente. In questa regola, che si rifà all’esperienza dei padri del deserto, viene utilizzata , per il prologo e i primi sette capitoli, la Regula Magistri, che è un'opera anonima di un italiano, che la scrisse intorno al 535-40, nell'ambiente di Cassiodoro. Per i successivi capitoli, che costituiscono la parte istituzionale, tra Benedetto e l’Anonimo della Regula Magistri, c'è un cammino parallelo: vi si notano influssi da parte di s. Basilio; viene utilizzato Pacomio e Cassiodoro.
La vita dei monaci riassunta nell'ora et labora, ha come fine ultimo la gloria di Dio (ut in omnibus glorificetur Deus, Reg. LVII), per questo è tutta incentrata nella celebrazione del culto divino, compito principale della schola dominici servitii. Accanto alla celebrazione eucaristica, occuparono così un posto di rilievo le ore canoniche costituite dal canto dei salmi e di inni e dalla lettura della Sacra Scrittura. I monaci distribuirono la preghiera in sette ore canoniche, dall'alba alla mezzanotte. Si dava però importanza pure alla lettura sacra (lectio divina) e al lavoro manuale. Per ovviare ai pericoli connessi alla vita dei monaci girovaghi, ai tre voti tradizionali la regola aggiunge anche l'obbligo di non cambiare monastero (stabilitas loci).
A costituire l'humus, donde germogliò il monachesimo benedettino, sono i concetti fondamentali di uguaglianza di tutti gli uomini davanti a Dio; nobiltà del lavoro; vanità delle ricchezze. Nel monastero non v'è infatti distinzione tra nobile e servo, tra romano e barbaro. Il monaco non possederà nulla in proprio e oltre alla preghiera, attenderà al lavoro. L'unione della preghiera con il lavoro, considerato come un dovere accanto alla preghiera, è appunto l'aspetto nuovo del monachesimo benedettino e la ragione della sua importanza anche civile. Ora et labora, il motto benedettino, è simbolo dell'unione dell'umano con il divino; dell'attività con la contemplazione e rappresenta la sintesi di quelle energie che hanno lentamente incivilito i barbari e preparato l'avvento della nuova civiltà e società medievale moderna.
La filosofia e la teologia del lavoro imposto dalla Regola benedettina è il risultato di diverse tradizioni mentali che oscillano tra la stima e valorizzazione del lavoro e il disprezzo dell'attività manuale: si pensi all'elogio classico dell'Otium che diventa otium cum dignitate dell'aristocrazia.
Nel sec. V vigeva la divisione della società in precise categorie, secondo uno schema trinitario, abbozzato da s. Agostino: sacerdoti, guerrieri, contadini costituiscono la società medievale. E' la base di un'antropologia trinitaria, che sarà rilanciata da s. Gregorio Magno (+ 604) e durerà fino al secolo XII. Con s. Bernardo (+ 1153) si passerà dal trinitarismo ecclesiologico al trinitarismo sociale. Si pensò allora di dividere società umana in tre ordini: gli oratores (clero e monaci), i bellatores (militari, guerrieri), i laboratores (contadini, artigiani). Questi provvedono, con il loro lavoro, al sostentamento di chi prega e di chi difende la comunità. Sono tre funzioni differenti. In questo modo si realizza la perfezione e la stabilità della vita associata, con una evidente nota di solidarità. E tuttavia questi tre ordini sono disuguali in grado e dignità, complice il sistema educativo, simile a quello dell'epoca tardo romana, elaborato sulla classificazione delle scienze in liberales e artes mechanicae e portato ora avanti dai monaci e dagli ecclesiastici [Le arti liberali, impartite dopo i primi rudimenti, erano suddivise in due sezioni: tre materie linguistiche, il cosiddetto trivium: grammatica (cui era unita la lettura dei testi classici e patristici), retorica, dialettica; poi le quattro discipline matematiche, il quadrivium: aritmetica, geometria, astronomia, musica].
Da quanto sopra, sembra godere un privilegio d'onore la classe degli intellettuali, a scapito dei lavoratori manuali, anche se l'iconografia esalta spesso la mano di Dio. Nasce l'ambivalenza dell'otium e del negotium. L'ambiguità del termine labor evidenzia le connotazioni negative di fatica e di peso, mentre opus si riferisce piuttosto all'esito dell'impegno. Si parla di opus Dei (liturgia) e di opus manuum, questo è qualificato come opus servile, lavoro degli schiavi. Nella mentalità medievale, laborare corrisponde alle attività agricole che sono il compito dei servi demaniali. In confronto si elogia la vita contemplativa, il riposo di Dio, nutrito di lectio divina e di liturgia è il tema del De vita contemplativa di Giuliano Pomerio (PL. 59, 415A - 520A) che alimentò settori importanti del mondo monastico ascetico.
Le comunità monastiche hanno sempre elogiato il lavoro manuale. Tutte le regole monastiche le prescrivono: da Giovanni Cassiano (ca. 432/433) a s. Benedetto; ma l'ora et labora benedettino è l'espressione di una promozione monastica del lavoro che viene associato con pari dignità alla preghiera e viene interpretato come penitenza e come imitazione degli apostoli e dei padri del monachesimo, ancorché venga richiesto dalla necessità di provvedere alle urgenze proprie e del monastero.
Nella regola di s. Benedetto è la stessa comunità che, attraverso l'abate, si fa datore di lavoro per i suoi componenti. Si lavora ogni giorno (cap. XLVIII): in qualche caso anche a distanza dagli edifici conventuali; donde la necessità di celebrare qualche ora liturgica nel luogo stesso del lavoro (cap. L). La comunità, delineata dalla Regola di s. Benedetto, vuol essere autossufficiente. Il monastero, se è possibile, sia costruito in modo che abbia tutto il necessario: acqua, un mulino, un orto e quanto necessita per l'esercizio delle arti diverse nella sua clausura, onde i monaci non debbano andare fuori vagando, il che non giova affatto alle loro anime (cap. LXVI). Il lavoro è artigianale, manuale e intellettuale. Il legislatore prevede circostanze normali, ma anche eccezionali (cap. XLI), mentre in modo categorico esclude l'ozio "che è il nemico dell'anima e perciò i fratelli devono essere occupati, ad ore stabilite, nel lavoro manuale e in altre ore devono dedicarsi alla lettura" (cap. XLVIII). I prodotti del lavoro monastico sono venduti e il monastero in quanto comunità ne trae vantaggio, senza tuttavia trasformarsi in una società a scopo di lucro, mentre il legislatore richiama all'umiltà i monaci che contribuiscono in questo modo alle necessità di tutti (cap. LVII). Il lavoro si svolge poi in silenzio, come del resto tutta la giornata monastica (cap. VI). In questo modo si accentua il clima orante della comunità, tutto orientato in funzione di una ricerca di Dio che si svolge nella realtà degli incarichi e nel rispetto del cammino spirituale di ciascun monaco.