La Chiesa missionaria
Dalla scoperta dell’America fino alla fine del 1700 la Chiesa Cattolica si espanderà anche nel Nuovo Mondo grazie all’azione missionaria.
Si verifica quindi una sorta di compensazione territoriale, in quanto i nuovi convertiti compensano le perdite dovute alla Riforma protestante, la Chiesa aveva perso quasi 1/3 del suo territorio. Al momento della conquista la popolazione totale dell'America era 40-100 milioni di abitanti, in questo primo mezzo secolo circa 10 milioni di indios ricevettero il battesimo, nello stesso tempo ci fu un calo demografico del 50% dovuto agli abusi della colonizzazione. La popolazione cattolica mondiale era di 50 milioni, questi 10 milioni rappresentavano quindi il 20% della Chiesa.
L’espansione missionaria è strettamente collegata con quella coloniale, in quanto:
- da un lato, la Chiesa cattolica è stata l’alleata principale delle potenze colonizzatrici (Spagna e Portogallo) le quali erano interessate a promuovere l’evangelizzazione degli Indios, primo passo verso la loro europeizzazione. Quindi evangelizzazione e colonizzazione non possono essere dissociate. La Chiesa ha legittimato questo diritto di conquista in cambio queste potenze hanno favorito incoraggiato l'espansione missionaria della Chiesa.
- dall’altro lato, la Chiesa può essere considerata la coscienza critica della colonizzazione in quanto eminenti teologi come Matias Paz, Bartolomeo de Las Casas, Francisco de Vitoria, hanno saputo denunciare gli abusi dei conquistadores contro gli Indios, affermando che questi ultimi erano uomini come gli europei. Alla base dell’opera di questi filosofi troviamo la filosofia tomista del diritto naturale. Ad un certo punto si è sentito il bisogno di denunciare gli eccessi di questa colonizzazione, senza perdere di vista la bontà di una colonizzazione che permette la diffusione dell'annuncio di Cristo.
Nel 1493 con la bolla Inter caetera, papa Alessandro VI riconosceva l’opera missionaria dei re cattolici e concedeva loro il privilegio del Patronato Regio, cioè un monopolio su tutte le missioni e sulle diocesi di nuova formazione. Quest’istituzione faceva dei re cattolici i capi responsabili delle missioni e ciò significava avere il dominio assoluto, anche in campo ecclesiastico sugli abitanti del Nuovo Mondo. Questa concessione veniva confermata:
- per la Spagna, con la bolla Universalis ecclesiae del papa Giulio II nel 1508;
- per il Portogallo, nel 1514 da papa Leone X;
Questo privilegio fu interpretato da parte dei re cattolici in senso totalitario, tanto è vero che il re di Spagna si considerò non solo capo responsabile delle missioni, ma anche vicario del papa, per tutto ciò che riguardava le questioni spirituali. Quando il papato cercò di restringere questa concessione si arrivò allo scontro i cui segni da ricordare sono:
- nel 1538 vennero presentati al re di Spagna dei documenti pontifici per il relativo placet, che non vennero presentati alla Santa Sede come di regola, tutte le bolle papali venivano sottomesse all'autorizzazione della corona, questa fu una misura di ritorsione a una bolla papale di Paolo III che difendeva la dignità umana di questi indigeni, all'inizio ci si poneva se questi indigeni fossero uomini veri, se avessero la stessa dignità dell'uomo.
- i vescovi del Nuovo Mondo, scelti più per la loro docilità politica che per il loro zelo apostolico e missionario, su disposizione di Carlo V, non parteciparono al concilio di Trento;
All’inizio del 1600, il papato ha cercato di recuperare la sua autorità in campo spirituale sia con la costituzione della Congregazione di Propaganda Fide, sia con la creazione di una nunziatura nelle Indie. I papi dopo il concilio di Trento hanno voluto riprendere in mano il controllo della situazione. Ma il re Fillippo II si oppose alla nunziatura e Filippo IV affermava che la competenza della congregazione di Propaganda Fide non riguardava il nuovo continente, ma le altre missioni non soggette al domino spagnolo. Tali disposizioni regie erano sostenute anche dalle idee diffuse nel trattato De Indianum iure del prof. Giovanni Solozarno Pereira, in cui si diceva che tutti gli affari ecclesiastici competevano al re di Spagna in quanto vicario del Romano Pontefice. Nel contempo alla Santa Sede faceva comodo questa forma di regalismo, in quanto assicurava una forma di monopolio religioso nel Nuovo Mondo.
Infatti la Chiesa, che non era preparata alla sfida dell’evangelizzazione, affidò allo Stato tale compito, che portò non alla fondazione di una Chiesa indigena, ma alla nascita di una cristianità coloniale caratterizzata dal domino dei missionari sui nuovi battezzati. Questo tipo di rapporto è detto anche Paternalismo spirituale, che può essere definito con le seguenti affermazioni:
- sul piano teologico, l’indio è uguale allo spagnolo ed ha la stessa vocazione alla salvezza come gli stessi diritti e doveri;
- sul pano morale, l’indio si trova nella condizione di un bambino, che ha bisogno dell’autorità paterna per crescere moralmente e spiritualmente;
I missionari, inoltre si sono trovati a difendere gli indios dall’istituzione dell’encomienda, che attribuiva allo spagnolo il diritto di utilizzare gratuitamente gli indios per vari servizi, in poche parole erano schiavi. Tale istituzione durò fino alla fine del 1600.
I Gesuiti con l’istituzione delle reducciones in Paraguay, invece, portarono gli indios dalle coste, ormai occupate dai coloni, all’interno del continente americano, dove costituirono delle riserve, dei villaggi, una trentina con duemila indios ciascuno, con lo scopo di proteggerli e dar loro una formazione agricola sociale e religiosa. Fu merito di questi padri gesuiti che arrivarono nel nuovo mondo solo dal 1570 in poi, portarono ciò che avevano sperimentato in altre zone. L’originalità di tale istituzione consistette:
- nella sua relativa autonomia rispetto alla tutela coloniale, infatti ebbero uno statuto speciale. Godevano di una totale autonomia rispetto al dominio spagnolo, nel 1610 Filippo II delegò tutti i poteri di amministrazione su queste terre ai gesuiti. Questi territori godevano di uno statuto giuridico del tutto particolare, erano governati dai gesuiti.
- nel sistema di governo e di organizzazione comunitaria, una sorta di paternalismo teocratico, dove la vita era regolata fin nei minimi dettagli;
Ma nel 1750 il trattato tra Spagna e Portogallo attribuiva a quest’ultimo sette territori in cui ritrovavano detti villaggi che videro in tal modo la fine. Successivamente nel 1767 i gesuiti furono espulsi dall’America, ma il giudizio storico sulle reducciones fu alquanto positivo, infatti:
- Voltaire ne parlò come un trionfo dell’umanità;
- Papa Pio XII nel 1949, affermò che tale istituzione aveva fatto al gloria dell’ordine dei gesuiti e della Chiesa cattolica, perché permise agli indios di crescere fuori del domino coloniale salvando la loro dignità umana.
La Santa Sede, quindi, tramite l’istituto del Patronato regio aveva demandato i re cattolici il compito dell’evangelizzazione e relativa regolamentazione della vita ecclesiale nelle terre di missione. Infatti né il concilio di Trento, né i primi papi del post-concilio, si sono occupati del problema missionario, tranne Pio V, che costituì nel 1568 una commissione cardinalizia per accompagnare la predicazione in terra di missione, questo perchè la loro prima preoccupazione sarà quella della lotta alla riforma protestante. Bisognerà aspettare il 1600 per vedere la Santa Sede tentare di riprendere in mano la situazione missionaria. Nel 1622 il papa Gregorio XV, con la bolla Inscrutabili Divinae Provvidentiae, ha istituito la congregazione di De Propaganda Fide, con cui la Chiesa si occuperà dell’evangelizzazione come suo compito primario. Il primo segretario della congregazione fu mons. Francesco Ingoli (1578-1649), uomo deciso e dinamico che seppe dare un impronta indelebile alla congregazione disciplinando il movimento missionario, fino ad allora travagliato da rivalità all’interno della stessa Chiesa. Infatti per i conflitti sorti tra vescovi e religiosi, tra ordini religiosi mendicanti e gesuiti e per effettuare dei controlli sull’attività dei religiosi missionari, tutti i superiori generali degli istituti religiosi furono obbligati ad inviare annualmente un rapporto dettagliato, sia sul numero di religiosi che si trovava in terra di missione, sia sulla loro attività. Sotto la guida di Ingoli venne elaborata una vera strategia missionaria che puntava su 2 punti:
- la formazione culturale e religiosa dei missionari, per la conoscenza delle lingue classiche e quelle dei luoghi di missioni (1627: fondazione del Collegio Urbano “De Propaganda Fide” per la formazione del clero non religioso);
- la formazione di un clero indigeno che conoscendo i costumi, la lingua, le tradizioni e cultura del posto, avrebbe potuto meglio attuare il messaggio evangelico, evitando così reazioni anti-europee contro la religione;
Bisognava dire che la congregazione della Propaganda Fidei ha dovuto fare i conti anche con tutta una serie di ostacoli, messi a volte anche dai missionari stessi che avevano dei pregiudizi anche verso questi indios, che ritenevano incapaci, incapacità intellettuale, propendenza a ubriacarsi, e all'idolatria.
Un altro strumento adoperato dalla Chiesa per riprendere il controllo delle missioni fu l’istituzione dei vicari apostolici per le terre di missione, cioè rappresentati del papa nati perché alla fine del ‘600 il Portogallo, a seguito della concorrenza commerciale di Olanda, Inghilterra e Francia, non poté più difendere le sue missioni, né soddisfare gli obblighi inerenti al suo patronato. Quindi con la scusa di sopperire a tale mancanza, la Chiesa creò nuove diocesi, nominò nuovi vescovi per le sedi vacanti ed inviò vicari apostolici. Ma per non entrare in contrasto con il diritto di patronato portoghese, la Chiesa seguì l’idea del missionario gesuita Alessandro di Rhodes che nel 1649 propose la nomina non di vescovi residenziali, prerogativa del patronato, ma titolari con sede in partibus infedelium, ovvero vescovi dipendenti direttamente dalla Santa Sede, non sottoposti ad alcun patronato. I primi furono nominati in Asia nel 1658 e con ciò avvenne la prima dissociazione tra la colonizzazione e l’evangelizzazione.
Nel 1659, la congregazione di Propaganda fide indirizzò a questi vescovi titolari un’istruzione redatta da un prete scozzese William Lesley, che fu ritenuto la Magna Charta delle missioni moderne, perché riassume tutte le linee essenziali della strategia missionaria, i cui aspetti principali sono:
- Compito essenziale e centrale della missione è quello dell’annuncio del Vangelo, da effettuarsi attraverso la testimonianza delle virtù evangeliche e non con l’aiuto politico, come era avvenuto durante il Medioevo, questo implicava che i missionari dovevano astenersi da qualsiasi attività politica ed economica, il messaggio da trasmettere deve in qualche modo diffondersi di per sè. In questa prospettiva si insisteva sull'importanza della loro testimonianza di vita evangelica, dovevano cercare di manifestare con la loro vita, con il loro stile di vita.
- La creazione di un clero indigeno, quindi l’erezione di strutture di formazione dove poter insegnare il latino (nonostante alcuni missionari facevano notare la difficoltà di imparare il latino da parte ad esempio dei cinesi) e la dottrina cristiana agli indigeni;
- La necessità dell’adattamento alle culture locali, per diffondere il vangelo e non la cultura europea, quello che si doveva trasmettere non è la cultura occidentale ma la fede.
La questione dei riti cinesi
Una lunga controversia, alla base di questa controversia possiamo trovare 2 metodologie diverse dell’azione missionaria:
- metodo della tabula rasa, applicato soprattutto dagli ordini mendicanti in America Latina, consisteva nel rigettare tutto il mondo pagano, perché ritenuto cattivo, dopo di che si procedeva all’evangelizzazione;
- metodo dell’adattamento, applicato dai gesuiti soprattutto in Asia, consisteva nel riconoscere il valore degli usi e costumi delle società pagane da evangelizzare (metodo della Chiesa primitiva);
Nel 1542, il gesuita Francesco Saverio giunse nell’India meridionale e nel 1549 fu il primo missionario a mettere piede in Giappone. Qui capì che prima di annunciare il vangelo bisognava adattarsi agli usi, costumi, lingua e tradizioni di quel popolo. Infatti usò il termine locale Dainichi (il grande sole), per designare Dio, ma siccome i giapponesi adoperavano tale termine per definire la potenzialità di tutte le cose, la materia prima, Francesco Saverio accortosi che tale termine indicava una realtà diversa dal Dio cristiano, lo sostituì con il latino Deus, traslitterato nella lingua locale Deusu. S. Francesco Saverio sognava di convertire la Cina, non vi riuscì a causa della morte nel 1552, ma il suo progetto fu portato avanti dai gesuiti Michele Ruggieri e Matteo Ricci, vero fondatore quest’ultimo, delle missioni in Cina, la cui azione si colloca in sintonia con le idee che Francesco Saverio aveva adottato in Giappone.
Matteo Ricci, studiò la lingua, i classici, gli usi, i costumi e le tradizioni della Cina, che uniti con la sua cultura occidentale, gli è stata di grande aiuto, perché gli permise di guadagnare la stima dei dignitari cinesi, cioè la classe alta della popolazione. Infatti si seguiva il metodo gesuita detto “discendente”, in cui il messaggio di salvezza era rivolto prima alle classi dirigenti e poi a quelle inferiori. Matteo Ricci, dopo aver letto Confucio maturò l’idea che nel confucianesimo esistevano dei valori che potevano essere riportati al diritto naturale e potevano costituire la base della sua opera di evangelizzazione, cioè tali valori erano come dei “prolegomeni” alle verità cristiane.
Ma il problema dell’adattamento portò all’annosa questione dei riti, in quanto i riti cinesi, culto a Confucio e ai defunti, che non avevano carattere religioso, ma erano manifestazioni di carattere civile, potevano essere praticate anche dai convertiti. Di tale questione non furono però d’accordo i Domenicani e i Francescani che più tardi giunsero in Cina, in quanto definivano tali riti idolatri e la terminologia usata in essi era fonte di errori dottrinali. Quindi attraverso i vescovi filippini e con l’ausilio del domenicano spagnolo Giovan Battista Morales sottoposero la questione a Propaganda fide e la Santo Uffizio, che nel 1645 condannò i gesuiti definendo i riti cinesi idolatri. I gesuiti, ad opera del missionario Martino Martini presentarono al Santo Uffizio, a loro difesa, una contromemoria e nel 1656, il santo Uffizio ritenne ammissibile la pratica di detti riti. Queste risposte discordanti tra di loro rivelano che la questione non era ben chiara alla stessa Santa Sede. Infatti mentre i gesuiti che rivolgevano la propria attività missionaria al ceto alto, affermavano che questi riti erano solo manifestazioni di pietà civile e familiare, cioè della cultura locale, i mendicanti che si rivolgevano soprattutto ai ceti più bassi, affermavano che essi avevano un significato religioso.
Nel 1692, l’imperatore cinese Kang-hsi emanò un decreto imperiale con cui affermava che i riti cinesi avevano un carattere civile e non religioso e, anche se proibiti dalla Chiesa, ne impose la pratica. Quindi nel 1704, il Santo Uffizio condannò tali riti e nel 1715 si ebbe conferma di ciò con la costituzione Ex Illa Die del papa Clemente XI. Successivamente nel 1742, papa Benedetto XIV, con la costituzione Ex quo singolari, conferma le proibizioni anteriori e obbliga tutti i missionari a giurare di non permettere la pratica di questi riti: ciò segna l’apparente fine della controversia. Ma la condanna dei riti cinesi provocò la persecuzione dei missionari, e la rottura dei contatti con la classe dirigente, a tal punto che il cattolicesimo cinese da questo momento in poi acquisì un carattere esclusivamente rurale.
Le cose mutarono quando vennero promulgate due encicliche, la prima la Maximum Illud nel 1919 da papa Benedetto XV e la seconda Rerum ecclesiae da papa Pio XI, con cui si auspicava non solo la costituzione di un clero indigeno, ma anche la creazione di vescovi locali, per eliminare il “colonialismo religioso”. Ciò avvenne nel 1926 con la consacrazione dei primi 6 vescovi indigeni. Successivamente nel 1929, il delegato apostolico, Mons. Celso Costantini partecipò al funerale del primo presidente della Repubblica cinese dopo la caduta dell’impero nel 1911 e in tale occasione si associò ai riti funebri in onore del defunto, cosa che non fu sconfessata da Roma, ma fu vista come primo passo verso la fine della condanna che arrivò poi nel 1939 per mezzo del papa Pio XII. Ma non ebbe l’effetto sperato, per le mutate circostanze politiche (II° guerra mondiale, rivoluzione comunista cinese) e per la mutata mentalità degli indigeni abituati a considerare tali riti come idolatri.
Nel 1606, il gesuita italiano Roberto dé Nobili arrivò nell’India Meridionale dove fondò la sua missione. Egli si ispirò ai metodi di Matteo Ricci e di conseguenza accettò la divisione in caste della società indiana e rivolse la sua attività alla casta superiore dei Bramani, presentandosi come un nobile romano, si fece penitente e prendendo l’abito dei Bramani, evitò, perché proibito il contatto con le classi inferiori. In tal modo egli accettò anche i loro riti detti malabarici, per cui fu denunciato a Roma, ma nel 1623, papa Gregorio XV, invece di emettere una condanna nei suoi confronti, autorizzò la pratica di tali riti. Ma in India come in Cina a sollevare problemi circa la praticabilità di tali riti, furono i mendicanti. Però, nel 1724, papa Clemente XIII condannò la loro pratica, che fu anche confermata, nel 1744, da Benedetto XV, ma nel 1939 venne revocata da papa Pio XII.