San Gregorio Magno e il suo tempo
Figura molto interessante venerata da Cattolici e ortodossi. Nella Storia della Chiesa ha una rilevanza importante
Dopo i disastri delle guerre gotiche molti cattolici italici, dinanzi all'avanzata dei Longobardi, preferirono porsi sotto il patronato di un ecclesiastico, anzichè di un signore laico. I duchi longobardi, nel sottomettere buona parte d'Italia, fecero un'ecatacombe del ceto dominante, massacrando preti, distruggendo città ed edifici sacri e stremando gli abitanti. Si moltiplicarono così le fughe dalla politica alla religione.
La sua storia
Molti così donarono alla Chiesa o fondano nuove chiese lasciandole poi eredi dei loro beni. Tra questi un giovane di nome Gregorio, un patrizio che era stato avviato alla carriera degli onori e intorno al 573, poco più che trentenne, rivestì la carica di prefetto di Roma.
Durante la prefettura gli morì il padre; sua madre si ritrasse a vita religiosa e lui stesso maturò il proposito della fuga dal mondo. Quindi, tra il 574-75, depose l'abito di lusso, tempestato di gemme e d'oro, con cui in passato soleva girare per la città e vestì l'umile saio del monaco, ritirandosi nella casa, ereditata dal padre, sul Clivus Scauri che trasformò nel monastero di S. Andrea.
Il passo compiuto da Gregorio, indubbiamente generoso ed eroico, non costituiva allora qualcosa di assolutamente nuovo e raro. La vita monastica aveva ricevuto nel VI secolo un impulso straordinario ed in molti luoghi erano sorti monasteri che si riempivano non solo di gente proveniente dalla classe popolare, ma anche di discendenti delle nobili famiglie romane. Lo stesso Gregorio ne ricorda molti, nei suoi Dialogi, come quello istituito a Fondi dal patrizio Venanzio, cenobio che contò fino a duecento monaci (Dial. I, 1); quello di Alatri, fondato dal patrizio Liberio (ibid. II, 35) quello femminile, fondato in Roma, presso la basilica di S. Pietro, dalla nobile vedova Galla (ibid. IV, 13) e molti altri. Oltre al monastero di S. Andrea sul Celio, Gregorio ne fondò altri sei in Sicilia, dotandoli con le proprietà di famiglia che aveva nell'Isola (Gregorio di Tours, Hist. Franc. X, 1). Per maggiore umiltà Gregorio non volle egli stare a capo del suo monastero, ma ne costituì abate il monaco Valenzione, già superiore nella provincia Valeria, donde era stato scacciato dai Longobardi (Dial. IV, 21). Gregorio, nel monastero, si dedicò agli esercizi monastici della preghiera e dell'ascesi. Nelle pratiche ascetiche e in particolare del digiuno egli fu così fedele alle prescrizioni e tradizioni cenobitiche, da rovinare addirittura il suo stomaco già delicato e contrarre una malattia che l'accompagnò per tutta la vita. In quegli anni, di vita monastica, lesse assiduamente le Scritture; e poiché non conosceva né l'ebraico, né il greco, cercò di interpretarle studiando s. Agostino e s. Girolamo. A questa scuola si formò quello che doveva essere il papa monaco e il grande dottore della Chiesa.
La sua esperienza monastica fu tuttavia breve: papa Pelagio II (579-90) lo promosse all'ordine del diaconato nel 579 e lo inviò a Costantinopoli, dove rimase fino al 586. Quivi, uno degli affari più importanti, di cui dovette occuparsi Gregorio, fu la richiesta di aiuti militari per l'Italia, al fine di contenere la pressione longobarda e soprattutto di sventare qualche colpo di mano nella regione di Roma, che era sprovvista di ogni guarnigione ed era difesa dalla sola milizia cittadina.
Purtroppo, però, l'Impero era impegnato nella guerra contro i Persiani, e tutto quello che si poté fare fu di inviare denaro per corrompere qualche duca longobardo e comprare l'alleanza col re Childeberto II d'Austrasia che, in effetti, discese in Italia, riportandovi però successi molto modesti. Verso la fine del suo soggiorno a Costantinopoli la situazione in Italia divenne meno preoccupante, grazie alla conclusione di una tregua triennale tra l'esarca Smaragdo e il re Autari.
Se i successi diplomatici di Gregorio a Costantinopoli furono piuttosto modesti, decisamente importante fu invece l'esperienza che egli acquistò degli uomini e delle ambigue arti della diplomazia bizantina.
Nel 586, richiamato a Roma, Gregorio divenne consigliere e segretario di papa Pelagio II. Sono questi gli anni in cui, vigendo la tregua tra l'esarcato e i Longobardi, vennero rinnovati i tentativi diretti a ricondurre all'unità e alla comunione i vescovi della Venezia e dell'Istria che ne erano separati per la questione dei Tre Capitoli. Gregorio, come si è detto, aiutò il papa in questa iniziativa e -come si è accennato- probabilmente scrisse una delle tre lettere, la terza.
L'opera di Gregorio presso papa Pelagio II si fece più impegnativa quando, nel 587, riprese la guerra con i Longobardi.
Alle devastazioni di questi si aggiunsero, tra la fine del 589 e gli inizi del 590, piogge torrenziali prolungate che provocarono lo straripamento dei fiumi. Tra le città inondate vi fu anche Roma, su cui il Tevere riversò grandi masse di acqua che tra l'altro distrussero tutti i depositi del grano. All'inondazione seguì la peste bubbonica che fece moltissime vittime, tra cui anche il papa Pelagio II (+5 febbraio 590).
La gravità della situazione rendeva necessario eleggere subito un successore al defunto pontefice. La scelta unanime del clero, del senato e del popolo cadde sul diacono Gregorio, già noto per i suoi meriti e per il suo zelo a favore della Chiesa di Roma. In un primo momento Gregorio pensò si sottrarsi, scrivendo anche all'imperatore perché non confermasse la sua elezione; ma il prefetto di Roma trattenne le lettere di Gregorio e inviò solo il protocollo dell'elezione, un uso che era invalso a partire dall'elezione di Pelagio I (556).
L'azione pastorale
Eletto nel febbraio e consacrato nel settembre 590, Gregorio si dedicò subito ai bisogni della città, colpita dalla peste e affamata.
Come prima cosa indisse una solenne processione di penitenza per impetrare da Dio la cessazione della pestilenza: si tratta della litania septiformis cui doveva partecipare tutta la popolazione. Dopo che le varie categorie si erano raccolte presso le sette chiese -il clero ai SS. Cosma e Damiano, i monaci ai SS. Gervasio e Protasio; le religiose ai SS. Pietro e Marcellino; i ragazzi ai SS. Giovanni e Paolo; le vedove a S. Eufemia, le maritate a S. Clemente e tutti gli altri laici a S. Stefano al Celio- dovevano dirigersi in preghiera alla basilica di S. Maria Maggiore per implorare ivi, tutti insieme, la Divina Clemenza. Le stazioni, che erano solite tenersi nel giorno anniversario dei martiri e in certe feste dell'anno, furono uno dei tanti esercizi di pietà rimessi in vigore da papa Gregorio. Egli stesso vi interveniva e teneva l'omelia sul tratto del vangelo che era stato letto. Parecchie omelie sui vangeli furono recitate nelle stazioni. E fu al termine della stazione penitenziale del 590 che i Romani sperimentarono l'alta protezione dell'Arcangelo s. Michele. Si narra nella storia di s. Michele, trasmessaci dalla Legenda aurea di Jacopo da Varagine -una raccolta di storie da leggersi per la festa del santo, un segno della fede dell'uomo del Medioevo- che al termine dei riti penitenziali si ebbe l'apparizione di s. Michele, sul culmine della Mole Adriana: da allora, per tal motivo, detta Castel Sant'Angelo. L'invocazione di s. Sebastiano, come depulsor pestilentiae, risale invece alla peste che scoppiò a Roma e a Pavia nel 680, come si apprende sia da Paolo Diacono (Hist. Long., VI, 5), sia dalla Legenda Aurea.
Cessata la pestilenza rimaneva il pericolo della fame. La Chiesa romana aveva larghi possedimenti (patrimonia) specie in Sicilia. Papa Gregorio scrisse al pretore della Sicilia perché facesse venire grano e altre derrate, addossandosi il compito, già degli imperatori, dell'annona.
Il vescovo di Roma era primate d'Italia e patriarca d'Occidente, prerogative che ben presto passarono in seconda linea di fronte a quella di primate di tutta la Chiesa.
Papa Gregorio fece oggetto sua cura pastorale, in primo luogo, il clero di Roma e della sua provincia ecclesiastica. In quanto vescovo di Roma, papa Gregorio richiamò i diaconi al loro ministero essenziale, che era il servizio dei poveri e la predicazione; ordinò che al servizio del papa fossero addetti non più laici, ma solo chierici o monaci (Ep. V., 57) e creò un vicedominus con il compito di dirigere l'episcopium, al posto dell'arcidiacono.
In quanto metropolita esercitò poi, con molta diligenza, quest'ufficio su tutte le chiese della provincia ecclesiastica romana che abbracciava l'Italia centrale e meridionale con le isole di Sicilia e di Corsica. Controllava le elezioni dei vescovi, vigilava sull'adempimento del loro ufficio pastorale e ne stimolava lo zelo, reprimendo abusi e persino deponendo chi si fosse reso indegno per gravi mancanze. Così ammonì il vescovo di Amalfi perché si assentava troppo spesso dalla sua diocesi; depose Demetrio, vescovo di Napoli, perché reo di gravi delitti. E fece del suddiacono Antemio un suo ispettore con incarichi simili a quelli che avranno i visitatori apostolici di età tridentina. Ci teneva tuttavia a non intervenire nella giurisdizione ordinaria dei vescovi che, in più occasioni, difese anche da altrui ingerenze.
Oltre la provincia ecclesiastica romana, in Italia v'erano -come si è detto- le metropoli di Ravenna, Milano, Aquileia e Cagliari. Gregorio rispettò sempre i diritti degli altri metropoliti e non intervenne mai negli affari interni delle loro chiese. E venendo a conoscenza di eventuali abusi interveniva, sempre tramite il metropolita. Così, si valse dell'arcivescovo di Milano per stabilire buoni rapporti con la regina Teodolinda, con l'intento di avviare la conversione dei Longobardi. Con il patriarca di Aquileia-Grado, Gregorio rinnovò i tentativi, già fatti da Pelagio II, per richiamarlo, insieme ai vescovi dell'Istria, all'unità e alla comunione con la Sede apostolica. Visto l'insuccesso, riprese quest'opera agendo sui singoli vescovi ed ebbe la consolazione di riportarne alcuni a riallacciare la comunione con la Sede Apostolica (Epp. V, 56; XI, 201). La Chiesa di Sardegna era minacciata da scorrerie di Longobardi e dalla cattiva amministrazione dei funzionari bizantini, inviati nell'isola dall'esarca d'Africa. Da qui la necessità per Gregorio di intervenire di frequente per correggere le mancanze dell'arcivescovo di Cagliari e di stimolarne lo zelo, aiutandolo anche nell'opera di conversione degli ultimi seguaci del paganesimo e dei giudei che in Sardegna avevano una numerosa colonia. Gregorio non voleva che si fosse usata violenza nei loro confronti, si sarebbero piuttosto dovuti guadagnare alla fede attraverso la persuasione. Lui stesso però non si sottrasse alla tentazione di suggerire al vescovo di Cagliari pressioni indirette, come l'aumento delle tasse ai pagani ostinati (Ep. IV, 26); e per la Sicilia Gregorio medesimo dispose il condono fiscale di un terzo dei tributi dovuti per quei giudei che si fossero dichiarati pronti ad abbracciare la fede cristiana. Con queste astuzie si ebbero in Sicilia molte conversioni di giudei; e cristiani sinceri furono i loro discendenti. In Sardegna e in Corsica si ebbero molte conversioni di pagani i quali, peraltro, resistevano nella stessa penisola in campagna e nelle regioni fuori mano: verso il 600 il numero dei cristiani della Chiesa latina, su di una popolazione complessiva di ca. 10 milioni, oscillava fra i 7-8 milioni.
Tra i problemi politici più importanti, con riflessi anche nel campo ecclesiastico che papa Gregorio, vero console di Dio -espressione che si leggeva nell'epitaffio in S. Pietro- dovette affrontare, emergono i rapporti di Roma con Bisanzio e quelli con i Longobardi.
Delicate e difficili furono le relazioni con l'imperatore d'Oriente. Papa Gregorio, di fronte agli imperatori di Costantinopoli, si mostrò ossequioso nelle forme esterne: Roma stava sotto l'impero; di fatto però la città e il territorio avevano ormai una certa autonomia, che costituisce un importante precedente del potere temporale; autonomia che insieme ai beni immobili, i cosiddetti "patrimonia S. Petri", rappresentano le basi dello Stato pontificio e della potenza politica dei papi in Italia nei secoli successivi. In questo contesto molte funzioni dell'autorità civile passarono al papa che, oltre al vettovagliamento della città -estensione della sua opera caritativa- provvide anche a dare il soldo ai soldati. S. Gregorio si oppose invece apertamente all'imperatore Maurizio (582-601) quando questi emanò, nel 592, una legge che proibiva ai curiali e agli uomini d'arme di farsi monaci e per i primi pure di entrare nel clero.
Di fronte a Giovanni il Digiunatore (Nesteute), patriarca di Costantinopoli, ebbe a sostenere una lunga controversia, perché negli atti di un concilio tenuto nel 587 a Costantinopoli, sotto la sua presidenza, si sottoscrisse con il titolo di patriarca ecumenico, tradotto in occidente come universale -in realtà significava solo patriarca dell'Impero- giudicato, pertanto, come "titolo nefando e arrogante".
Questo termine, che trova il suo fondamento nel decreto emesso da Giustiniano nel 545, in forza del quale il vescovo di Costantinopoli -primate d'Oriente- aveva il secondo posto, dopo quello del vescovo di Roma mentre aveva la precedenza su tutti gli altri vescovi. In seguito l'appellativo di ecumenico ebbe un'interpretazione ortodossa -significando il patriarca dell'Impero d'Oriente- anche se lesiva del prestigio del papa in oriente. S. Gregorio, da parte sua, per umiltà, volle chiamarsi servus servorum Dei, espressione che non è in polemica con la precedente, ma, già in uso prima del pontificato, è uno sviluppo della formula monastica, servus Dei.
Quanto ai Longobardi, che l'impero considerava come predoni da sottomettere o sterminare, Gregorio li ritenne invece un popolo da convertire e portare possibilmente all’’amicizia con l'impero al fine di stabilire in Italia una pace fondata sulla tranquilla convivenza di Italiani, Imperiali e Longobardi.
Nel frattempo cercò però di tener lontani da Roma i Longobardi che dal territorio del Ducato di Spoleto -giungeva fino alla Sabina- facevano incursioni, minacciandone l'indipendenza e per ben due volte li respinse: nel 592 respinse Ariulfo, duca di Spoleto e l'anno successivo Agilulfo, re dei longobardi che avanzò verso Roma e la strinse di assedio. Il papa, senza nessun aiuto da parte dell'esarca di Ravenna, allontanò allora il pericolo trattando con il re e dandogli un forte tributo (500 libbre d'oro). Triplice l'azione di papa Gregorio verso il Longobardi: impedire che costoro estendessero le conquiste in Italia; sottrarre la regina Teodolinda all'influsso degli scismatici dei Tre Capitoli e confermarla nella fede cattolica. Condurre Longobardi ed imperiali ad una intesa che da una parte assicurasse la pace all'Italia e, dall'altra, permettesse di svolgere una fruttuosa opera missionaria tra i Longobardi. La sua azione, nella questione longobarda, fu anche importante per la doppia funzione che egli svolse: di mediatore tra i due contendenti e di rappresentante degli interessi di Roma e dell'Italia, "la sua terra", sia dinanzi ai Longobardi invasori, sia dinanzi ai dominatori Bizantini che si mostravano ogni giorno di più incapaci di difenderla.
I suoi scritti
In mezzo a tanti pericoli s. Gregorio svolse una singolare attività letteraria. Un complesso di scritti che saranno tra i più letti nei secoli posteriori. La dottrina di s. Gregorio, dove sono già contenuti quasi tutti gli elementi di cui avranno bisogno i cristiani del Medioevo occidentale, è lo specchio della sua vita. Egli non è un intellettuale che si compiace di speculazioni, è piuttosto orientato verso la pratica e tutto il suo insegnamento è caratterizzato dalla moderazione. Merito di Gregorio è quello di aver trasmesso al Medio Evo non i testi classici -come Cassiodoro- ma l'eredità classica, adattata però alle nuove necessità dell'epoca. Più che i testi Gregoro salvò lo spirito della cultura classica.
Quando era ancora a Costantinopoli Gregorio iniziò a scrivere i Moralia, un'esposizione del libro di Giobbe, che terminò da papa. Vi sono raccolte conferenze fatte ai monaci che da Roma aveva portato con sé a Costantinopoli ed è la più lunga delle sue opere. Gregorio interpreta il libro di Giobbe secondo i tre sensi: letterale, allegorico e morale, però con una certa libertà, così che talvolta si ferma su tutti e tre, qualche altra su quello allegorico, talaltra sul morale. L'interpretazione allegorica é troppo minuta e spesso ricercata e artificiale, talvolta persino arbitraria. Il pregio dell'opera sta negli insegnamenti morali che Gregorio sa trarre abbondanti attraverso la spiegazione mistica del sacro testo.
A commento dei testi della Bibbia compose inoltre XXII Omelie su Ezechiele e su 40 pericopi evangeliche che si leggevano nella messa; un commento sul primo Libro dei Re e sul Cantico dei cantici. La maggior parte di queste omelie furono tenute al popolo e si adattano all'uditorio. Speciale menzione, l'omelia XVII indirizzata non al popolo, ma ai vescovi adunati nella basilica lateranense, sui doveri del predicatore della parola di Dio e sulla cattiva condotta dei sacerdoti del tempo.
Ai vescovi, nella persona di uno di essi, dedicò il Liber regulae pastoralis, dove si insegna il regimen, cioé l'arte di governare le anime (ars est artium regimen animarum). Il libro, una delle opere migliori e più organiche, fu scritto nei primi anni del suo pontificato. Era tradizione che i neo-eletti patriarchi inviassero ai titolari delle altre sedi patriarcali, sotto forma di lettera sinodica, la loro professione di fede e di adesione ai concili universali. Gregorio annunci:ò, sin dal 590, a Giovanni di Costantinopoli l'invio di una lettera, la Regola dei pastori che poi però dedicò ad un vescovo Giovanni, probabilmente l'arcivescovo di Ravenna.
Diviso in quattro libri, nella prima parte Gregorio tratta della sublimità e delle difficoltà dell'ufficio pastorale. Nella seconda tratta della condotta del pastore, ossia delle virtù che deve possedere o sforzarsi di acquistare e dei difetti che deve evitare. Nella terza parte poi, che è la più lunga e la più importante, mostra come il pastore deve predicare e come deve ammonire le diverse categorie di fedeli. Nell'ultima parte richiama il vescovo alla riflessione e al rinnovamento quotidiano del proprio interno affinché l'esercizio del sacro ministero non lo porti alla vana compiacenza di sé stesso e alla superbia. Il libro ebbe larga diffusione in tutte le Chiese d'Occidente e Atanasio di Antiochia ne fece una tradizione in greco.
Grande successo ebbe anche l'altra opera scritta da Gregorio nel 593-4, Dialogi libri IV o De vita et miraculis patrum italicorum, di carattere popolare. I Dialogi -così detti perché scritti sotto forma di un dialogo tra Gregorio stesso e Pietro, l'amico diacono già monaco a S. Andrea e poi rettore dei patrimoni della Sicilia e della Campania- non sono un'opera storica, ma appartengono a un genere letterario detto aretalogico (virtutes), per il quale bisogna risalire alla letteratura delle Vitae Patruum o alla stessa vita di s. Antonio scritta da s. Atanasio.
Se in effetti l'autore ha fatto ricorso a informatori veri e propri, il suo interesse è però rivolto alla descrizione dei signa e delle virtutes al fine di testimoniare l'eccezionale fervore di quei monaci. Suo intento è quello di rivendicare all'Italia il fervore ascetico universalmente riconosciuto ai monaci orientali.
La scena si apre in un giardino romano, dove Gregorio si era ritirato, rattristato di dover spendere il suo tempo in tante cure mondane e non potersi dedicare tutto alla preghiera, nella quiete del monastero, come tanti santi uomini che, vivendo appartati dai rumori del mondo, raggiungono la più alta perfezione. E poiché Pietro non capisce a quali uomini Gregorio alluda, ed anzi afferma che se in Italia vi furono uomini buoni, non vi furono però dei santi insigniti di virtù straordinarie e di opere miracolose, Gregorio risponde che l'Italia, anche nei tempi recenti, ha conosciuto tanti santi autentici e li passa in rassegna in quattro libri dove descrive il potere taumaturgico degli Italici oppressi: fatti meravigliosi e strabilianti dove spicca il fervore spirituale dei monaci. Fu questo diacono Pietro a vedere una colomba -simbolo dello Sprito Santo- porsi accanto all'orecchio del pontefice Gregorio, intento a dettare le sue lettere; da qui l'attributo iconografico che costantemente accompagna la sua immagine.
L'opera, maturata nell'ambiente monastico, da cui Gregorio proveniva, sono il frutto della scoperta di un largo filone di taumaturgia insospettata che irradia dalla varie periferie, che Gregorio chiama loci minores, dove appunto si erano rifugiati coloro che, a partire dal 575-576, erano scappati dai Longobardi. Questi fuggiaschi presentano gli invasori a fosche tinte: sono distruttori di chiese, di monasteri e delle stesse antiche e care tradizioni. Unico argine alla prepotenza barbara è l'intervento taumaturgico di Dio, dei vescovi e degli uomini di Dio (viri Dei cioè i monaci), vero baluardo contro gli invasori. Emblematico l'esempio di Cassio, vescovo di Narni, cui Totila, dopo averlo deriso, va ad inchinarsi perché il suo braccio destro sia liberato dal demonio. Il testo ci offre dettagli unici sui centri monastici del Lazio, della Campania della provincia Valeria e dell'Umbria. Caratteristica precipua di molti personaggi è la simplicitas: scarsa domestichezza con la cultura scritta, stretta promiscuità con il mondo popolare, specie rurale. Sono caratterizzati come simplices: l'abate Eleuterio di Spoleto, l'abate Stefano di Rieti, il prete Amanzio di Città di Castello, l'abate Spes di Campi e lo stesso s. Benedetto da Norcia. In alcuni monaci c'è una tendenza all'eccessiva ilarità e buonumore. Alcuni vogliono morire in piedi, sostenuti dai monaci, così il patriarca Benedetto e Spes abate di Campi: un gesto rituale di grande portata antropologica (così, ad esempio, volle morire l'imperatore Vespasiano: Imperatorem ait: stantem mori oportere).
Molti di questi monaci, ritenuti depositari di poteri superiori, erano stati richiesti dai fedeli come intercessori. Emblematico il caso del prete Amanzio che presenta tutte le caratteristiche del buon serparo. Di contenuto vicino al folclore, sono anche i miracoli di Bonifacio vescovo di Ferentis (Ferentum) il quale moltiplica il vino e scongiura sui bruchi: "io vi scongiuro che vi allontaniate di qua e cessiate di mangiare quest'erba". Ed ecco che i bruchi se n'andarono tutti quanti e in tutto l'orto non se ne vide più neppure uno. Ed è nel clima della simplicitas che va ambientata l'amicizia di alcuni monaci con gli animali ammansiti al punto di osservare spontaneamente i diversi tipi di orario monastico, nelle differenti stagioni. Così Fiorenzo di Campi, in Valnerina, riuscì ad addomesticare un orso e i monaci confratelli, che per invidia avevano deciso di uccidere l'orso, furono puniti con il castigo della lebbra.
A questo ambiente taumaturgico -dove il miracolo ha lo scopo di confermare alcune verità di fede, come la sopravvivenza delle anime dopo morte, le pene che esse soffrono nel purgatorio- si contrappone uno scadimento di qualità del clero e nella condotta morale e nella preparazione culturale; di conseguenza vita pastorale e amministrazione dei sacramenti nella provincia Valeria dovettero essere notevolmente degradate; da qui l'urgenza della formazione del clero.
La prima edizione delle opere di Gregorio fu condotta dai padri Maurini, sotto la guida di D. Sammartanus (De Sainte Marthe) e uscì a Parigi 1705. Fu quindi migliorata dal Galliccioli (Venezia 1768-76) e riprodotta nella Patrologia Latina (PL LXXV-LXXIX). Edizioni critiche recenti in MGH; in Corpus Christianorum, Series Latina (CchrL); e anche nella collana Sources chrétiennes. Un utile strumento di lavoro sugli scritti di s. Gregorio è la concordanza verbale, intitolata Thesaurus Gregorii Magni, Turnhout 1984.
La figura di Gregorio Magno
L'azione di papa Gregorio, quale appare soprattutto dalle Lettere, ma anche dai Dialoghi, fu rivolta verso il totale ristabilimento della disciplina ecclesiastica e il consolidamento progressivo dei legami delle diocesi italiane con Roma.
Si tratta di un processo che continuerà e si compirà lungo il secolo VII con la conversione dei Longobardi e la riesumazione di molte sedi soppresse, con la conseguente riorganizzazione disciplinare. Quello delle sedi episcopali vacanti sarà uno dei problemi più cari a papa Gregorio, insieme alla conversione dei Longobardi d'Italia e all'iniziativa missionaria presso gli Angli, dove parteciparono monaci dalle spiccate esperienze taumaturgiche.
Con papa Gregorio c'è una ripresa, non una restaurazione, poiché nel giro di neppure trenta anni si era maturata una situazione sostanzialmente nuova non solo sul piano politico, ma anche ecclesiastico e culturale. Nulla avrebbe ormai potuto rimanere come prima. Il genio di Gregorio è stato quello di aver capito ed accettato queste nuove realtà -i longobardi- e di averne estratto il senso ecclesiale proponendo, con i Dialoghi e le Omelie, una nuova forma di cultura religiosa. Non un imbastardimento della grande teologia patristica, ma il tentativo riuscito di permeare il mondo divenuto barbaro: un geniale adattarsi alla nuova cultura, creando una nuova forma di cultura religiosa. Era ormai finito il cristianesimo della Roma imperiale e con Gregorio cominciava quello dell'Italia, o meglio dell'Europa Medievale.
Testimoni dell'eccezionale attività di papa Gregorio sono le sue importanti Lettere raccolte nel Registrum papae, originariamente in 14 volumi, distribuiti secondo gli anni del pontificato. A noi è rimasto un notevole gruppo: 848 lettere in tre collezioni. Nelle lettere dei primi tempi Gregorio lamenta la rinuncia alla vita contemplativa; però, oltre a applicarsi con dedizione al nuovo ufficio, egli seppe ben presto raggiungere un perfetto equilibrio tra vita attiva e vita contemplativa, un modello di vita che lui stesso descrisse nella Regola pastorale. Il buon pastore -egli scrive- nelle sue occupazioni esteriori non trascura la sollecitudine per le cose dell'anima e per questa medesima sollecitudine delle cose dell'anima non abbandona la cura degli affari esterni (Reg. past. II, 1). Sin dal principio egli ebbe chiara coscienza dei doveri del vescovo che ricapitola nella lettera sinodica inviata, nel febbraio 591, ai quattro patriarchi orientali (Ep. I, 24) e che poi espone nella Regola pastorale.
Pastore e maestro, Gregorio scrisse per tutti: dalla gente del popolo ai monaci, al clero. La sua dottrina ha soprattutto un carattere pastorale. Costante preoccupazione, quella di adeguarsi a chi l'ascolta. E a tutti Gregorio propone uno stesso ritorno a Dio, attraverso il cammino di due stati di vita: quella attiva, ordinata soprattutto alla salvezza del prossimo; e quella contemplativa, ordinata alla salvezza personale. Due stati di vita conciliabili in una medesima persona; anzi, nella maggioranza dei casi possono e debbono essere compresenti e l'equilibrio si realizza sotto forma di un esercizio alternato dei due modi di vivere.
Così come l'attività letteraria, anche l'opera di Gregorio in campo liturgico fu ispirata dal più puro zelo pastorale. Vi è un tipo di Sacramentario, più recente del Gelasiano che, con il suo nome (Incipit liber Sacramentorum de circulo anni expositus, a s. Gregorio papa Romano editus). Compilato tra il 592-95, non ci è pervenuto l'originale, ma copia del Sacramentario che papa Adriano I inviò verso il 785-6 a Carlo Magno. Su detta copia sono stati esemplari due gruppi di manoscritti: 1 - codice di Padova D 47 (sec. IX); codice glagolitico di Kiew (sec. IX, mancano le ferie V di quaresima introdotte da Gregorio II); 2 - codice di Cambrai (Bil. Mun., ms. 159) compilato nell'812; ms. mutilo di Montecassino (vi sono aggiunte fatte al sacramentario dal pontificato di Gregorio II a tutto il sec. IX).
In origine quel messale dovette essere usato quando il papa celebrava la Messa solenne nella basilica lateranense, o quando interveniva alle Stazioni. Di certo il prestigio del nome di Gregorio ne favorì la diffusione con i dovuti adattamenti.
Gregorio compilò pure un Antifonario che comprendeva canti da eseguire durante la messa. A tal fine riorganizzò la schola cantorum romana, alla quale donò delle terre e due case perché servissero di dotazione della schola e di abitazione per la vita comune. La tradizione che Gregorio sia stato anche l'organizzatore del canto gregoriano risale a Giovanni Diacono e al Venerabile Beda.
Espansione missionaria
L'azione e la carità di papa Gregorio si estesero anche fuori d'Italia. Un suo primo merito è quello di aver contribuito alla conversione dei popoli germanici. Egli cercò in primo luogo di mettere in più stretta relazione con la Chiesa e col papato i Visigoti e i Franchi, ambedue popoli germanici, fra di loro in continuo contrasto.
I Visigoti, che provenivano dalle rive del Danubio, a settentrione del Mar Nero, dove si erano convertiti all'arianesimo, conquistarono la Gallia meridionale e la Spagna nel 419. A lungo rimasero ariani finché il re degli Ispani Leovigildo, che aveva preso il potere nel 568, si ammalò. Invitato dai familiari -in particolare dal figlio Ermenegildo e da Ingunde, cattolica franca, moglie di quest’ultimo- a far penitenza e a pregare con fede, si convertì al cattolicesimo, ma di lì a poco morì. Gli successe Recaredo (586-601) che, insieme a sua moglie Badda si convertirono al cattolicesimo; seguì poi la conversione in massa di tutti i visigoti. Il passo fu sigillato dal III Concilio di Toledo (589). Papa Gregorio ebbe relazioni con la Spagna, da poco convertita al cattolicesimo, svolgendo un'importante corrispondenza con il re visigoto Recaredo e con Leandro, arcivescovo di Siviglia, cui mandò il pallio.
I Franchi, provenienti dalla Pannonia e guidati da Clodoveo (481-511), conquistarono la Gallia fino alla Loira e più tardi incalzarono i Visigoti anche nella parte meridionale fino alla Garonna. I Franchi inizialmente avevano accolto il cristianesimo alla spicciolata, ma ben presto il popolo si dovette convertire in massa alla nuova religione nella forma cattolica. La decisione fu provocata dalla risoluzione di Clodoveo, sposato con Clotilde, una principessa cattolica della casa reale di Borgogna. Questa conversione al cattolicesimo ebbe una conseguenza particolare: tutti gli altri principi germanici erano ancora pagani o ariani; da Roma si guardò ai Franchi come a un possibile protettore della fede ortodossa.
Gregorio intervenne presso la corte dei Franchi, rimproverando l'abuso della simonia e cercando di riformare le tristi condizioni della Chiesa franca, servendosi dei sinodi e dei vescovi e, in particolare, dando all'arcivescovo di Arles il titolo e l'ufficio di suo vicario per le Gallie.
Gregorio diede soprattutto l'impulso decisivo all'azione missionaria tra gli Anglo-Sassoni di Britannia.
Al tempo di Gregorio Magno l'Inghilterra era divisa tra i Brettoni, cristiani da tempo i quali durante le invasioni barbariche si erano ritirati nella zona owest dell'Isola e gli Anglosassoni, gli invasori che erano dei pagani. L’azione missionaria di Gregorio si rivolse a quest’ultimi e lo fece servendosi di monaci.
La missione ebbe inizio nel 596, con l'invio di Agostino, abate di Roma e di 40 compagni monaci, per la conquista alla fede dell'ultimo gruppo di popoli ancora pagani immigrati nelle antiche province occidentali dell'impero. Il papa comunicò il fatto al Metropolita di Arles, invitandolo ad aiutare Agostino e chiedendogli anche di accogliere il prete Candido che aveva nominato aministratore dei beni terrieri che la Chiesa aveva in Francia. Agostino, giunto a Kent, trovò Ethelbert, che era bretvaldo (capo dei re) dell'eptarchia anglosassone, già ben disposto verso il cristianesimo per merito di sua moglie Berta, una principessa franca.
Per andare a colloquio con il bretvaldo si mosse processionalmente, portando come vessilli una croce d’argento e l’icona del Salvatore e cantando litanie, per impetrare la salvezza dei popoli presso i quali egli, insieme ai suoi monaci, era venuto. Autorizzati a svolgere un’azione missionaria, i monaci cominciarono a vivere all’apostolica , vegliando, digiunando , predicando: parecchi credettero e si fecero battezzare. Lo stesso Ethelbert, che aveva acconsentito ai missionari di predicare, nel 597 ricevette il battesimo insieme con migliaia di suoi connazionali. Agostino si recò quindi ad Arles dove fu consacrato vescovo da Eterio, primate della Gallia. Dopo di che informò il papa cui inviò anche un questionario sul quale chiedeva consiglio. Alle nove domande papa Gregorio rispose, nel 601, con il Libellum responsorium, riferito dallo scrittore Beda, lo stesso che narra lo svolgimento della missione dei monaci romani in Inghilterra. Vi si legge -tra l’altro- in risposta alla diversità delle liturgie , che avevano colpito Agostino, abituato all’uso romano: “non devi preferire una cosa in ragione del luogo, ma i luoghi sono in ragione delle cose che vi sono; scegli da ogni singola Chiesa gli usi retti, pii e fa sì che diventino consuetudine”.
Le direttive di papa Gregorio erano che l'opera missionaria doveva svolgersi col massimo adattamento possibile alla cultura di quel popolo autorizzando, fra l'altro, la trasformazione di templi in chiese e di feste pagane in cristiane.
Costatati i successi di Agostino, il papa inviò in Inghilterra altri missionari (Mellito, Giusto e altri) e ordinò ad Agostino, che aveva insignito del pallio arcivescovile con la facoltà quindi di ordinare vescovi, di fondare due provincie ecclesiastiche, ciascuna con dodici vescovadi suffraganei (601). Le sedi metropolitane dovevano essere i vescovadi britannici già esistenti di Londra, per l'Inghilterra meridionale e York, per l'Inghilterra settentrionale. Tuttavia al posto della prima subentrò Canterbury, capitale del Kent, dove la missione aveva mosso i primi passi e Agostino aveva stabilito la propria sede vescovile.
Alla morte di Gregorio il regno di Kent era in gran parte cristiano e la gerarchia era stata stabilita. Quindi nel giro di cinquanta anni, superati i ritorni offensivi del paganesimo, fu portata a termine l'organizzazione di quella Chiesa il cui fervore é testimoniato dalla fioritura di un gran numero di monasteri maschili e femminili, ordinati secondo la regola benedettina e dalla pratica dei pellegrinaggi ad limina apostolorum, con il versamento di un'offerta in denaro, l'obolo di s. Pietro (denarius s. Petri). Va però anche aggiunto che in Inghilterra c’era una terza provincia, quella dei Brettoni, cristiani da lungo tempo, non conquistati dagli invasori e gelosi della propria libertà.
Il monachesimo irlandese
Quattro anni prima dell’invio di s. Agostino, come missionario fra gli Anglosassoni, ,un gruppo di monaci irlandesi dalla loro isola, si rovesciarono prima in Inghilterra, poi sul continente, percorrendolo come penitenti e apostoli. L'Irlanda, dove il cristianesimo -teste Tertulliano- era penetrato già nel II secolo, agli inizi del V secolo fu sconvolta dalle invasioni delle popolazioni germaniche, Iuti, Angli e Sassoni che se ne impadronirono. La conversione degli invasori era stata opera di s. Patrizio (+493), un bretone che, eletto vescovo, si recò nel 457 nell'isola dove, con l'aiuto di missionari provenienti dal continente, in mancanza di città e di centri -essendo il popolo raggruppato in clan che formavano delle tribù- organizzò comunità cristiane stabili in centri ecclesiastici, trasformatisi in seguito in monasteri doppi, presieduti dal vescovo.
L'azione missionaria ed evangelizzatrice di s. Patrizio fu profonda e diede un'impronta al cristianesimo irlandese che assunse caratteristiche peculiari. L'ordinamento gerarchico prevedeva la sottomissione del vescovo e del clero secolare agli abati. I monasteri erano centri di cultura e di spiritualità e produssero un forte movimento di irradiazione che si coniugò con la peregrinatio religiosa, cioè con l'abbandono, in nome di Dio, della propria terra. Al principio del VI secolo ci fu un nuovo impulso e un grande sviluppo della vita monastica e l'Irlanda, in breve, si popolò di monasteri maschili e femminili: vere scuole di ascetismo e di santità, tanto da meritare il titolo di Insula sanctorum. All'interno dei monasteri si coltivava lo studio delle scienze sacre (il monaco irlandese è sempre rappresentato con la cartella in mano), si trascrivevano codici (nella propria scrittura scottica) e si componevano grammatiche, inni religiosi, scritti esegetici. Mentre, tra i fedeli, i monaci diffusero il culto dei santi. In particolare si sviluppò la devozione ai santi romani, specialmente agli apostoli Pietro e Paolo, di cui s. Patrizio portò presunte reliquie.
Questo modello celtico fu esportato sul continente ad opera di due grandi missionari -Columba il vecchio (+597) e s. Colombano, o Columba il giovane (543-615) e interessò il mondo anglosassone e l'Italia longobarda.
Il più grande centro culturale dell'Irlanda era il monastero di Bangor, fondato da s. Comgall nel 559. Da questo monastero partì nel 591, insieme a 12 compagni, s. Colombano, un severo riformatore ultrasettantenne, rigido asceta e predicatore di penitenza.
Egli, dopo aver pellegrinato e fondato monasteri nella Gallia, fra cui Luxeuil, in Bretagna, dove stabilì la sua residenza abbaziale, attraversò le Alpi e si stabilì in una zona boscosa dell'Appennino ligure, lungo la valle della Trebbia dove con il consenso di Agilulfo, re dei Longobardi, a quel tempo ancora ariano, e di sua moglie Teodolinda, nel 612 fondò il monastero di Bobbio. Si trattò di un'importante migrazione monastica avvenuta in un territorio soggetto al re longobardo Agilulfo. E i longobardi erano ariani o pagani.
L'abbazia di Bobbio nel giro di pochi anni, dopo aver abbandonato gli austeri regolamenti di Colombano, che imponeva un rigore straordinario nell'esercizio della penitenza -perfino piccole manchevolezze venivano punite con pene corporali- assunse la regola benedettina, meno rigida e più adattabile alle situazioni varie.
Fra le norme caratteristiche della regola che va sotto il nome di s. Colombano -una raccolta di principi ascetici e spirituali- oggetto poi di contrasto quando i monaci bretoni e scotti vennero a contato con il monachesimo benedettino del continente furono: la tonsura celtica (rasatura della parte anteriore dei capelli che contrastava con la tonsura Petri che lasciava una specie di corona); particolarità nell'amministrazione del battesimo; consacrazione episcopale fatta da un solo vescovo, senza i due vescovi consacranti; un computo della pasqua assai imperfetto, per cui spesso non coincideva con quella comune.
L'abbazia di Bobbio promosse opere di dissodamento nei territori padani dove i monaci godevano della libera navigazione e di ampie immunità per i loro mercati e soprattutto svolse un opera di cristianizzazione attraverso le numerose dipendenze: in quest'epoca si costruiscono in Lombardia numerose chiese rurali, di preferenza nei pressi dei distretti, sedi delle adunate militari. Si assiste così ad un inizio di conversione in seno ai nuclei militari longobardi con la costruzione di chiese battesimali. Notevole anche la funzione culturale di questa abbazia, divenuta un centro di irradiazione culturale sia di opere della letteratura cristiana antica, sia di quella classica. Bobbio contribuì così in modo determinante all'incivilimento del nuovo mondo italo-barbarico e alla formazione della civiltà dell'Occidente.
A s. Colombano risale, almeno in buona parte, un codice penitenziale (Poenitentiae) che ebbe notevole risonanza in quanto ispirò per molti secoli la disciplina della penitenza basata sull'arbitrato e la composizione, creando un sistema tariffario di rigida corrispondenza tra il peccato e la pena. Nacquero così i libri penitenziali, per l'amministrazione della penitenza pubblica o canonica: cataloghi di peccati e di pene espiatorie destinati a guidare i confessori nell'esercizio del loro ministero.
I libri penitenziali, la cui produzione va dal VI all'XI secolo -il più famoso nel M. E. è il penitenziale di Burcardo di Worms scritto tra il 1008 e il 1012- sono un attestato interessante non solo dell'azione pastorale della Chiesa, ma anche della storia del costume. Per capirne l'importanza, basti pensare al movimento penitenziale che caratterizzò la spiritualità medievale. Per il ruolo che la disciplina penitenziale rivestì sia nell'ordinamento ecclesiale, sia in quello sociale, gli uomini del Medioevo sono stati definiti "uomini della penitenza".
Oltre a Bobbio contribuirono a riorganizzare la vita cattolica tra i Longobardi anche i monaci orientali chiamati dai pontefici verso la metà del sec. VII.
In seguito ci fu una fioritura di monasteri maschili e femminili, quasi sempre preceduta dalla presenza di un anacoreta, spesso dal nome orientale, impegnati nell'evangelizzazione dei pagani e nell'assistenza ai pellegrini.
Una conferma degli sforzi missionari compiuti nell’Italia longobarda durante il sec. VII è la diffusione del culto della Vergine, mentre il titolo di Sancta Mater Ecclesia di alcune chiese toscane rimanda alla politica di unire strettamente a Roma quelle diocesi, dove si andava riorganizzando la vita ecclesiastica. Furono gli stessi Longobardi a promuovere nelle loro terre la fioritura monastica; lo fecero tuttavia riservandosi quasi sempre la protezione sui beni, da loro assegnati "pro remedio animae"; mentre l'organismo veniva sottoposto all'autorità del vescovo.
Fra le abbazie imperiali, ruolo importante fu quello svolto dal monastero di Farfa, istituito nel VI secolo dal vescovo Lorenzo, reduce dall'Oriente e ricostruito da Tommaso di Morienna con monaci franchi dei quali divenne primo abate. Il monastero quasi subito assunse una funzione intermedia fra il papa e il duchi di Spoleto di cui godettero la protezione e dai quali ottennero un vasto patrimonio. I vincoli di Farfa con la corte di Pavia fecero poi sì che le numerose dipendenze del monastero svolgessero non solo funzioni di carattere religioso, proprie di un centro monastico, ma anche una funzione prettamente politica e militare, di estrema importanza nelle stesse competizioni tra i Longobardi di Spoleto e quelli di Pavia.
Fu invece la Santa Sede a fondare S. Vincenzo al Volturno, al limitare delle giurisdizioni tra i Longobardi di Spoleto e quelli di Benevento, preoccupata com'era del continuo avanzamento dei Longobardi nella campagna romana. Il monastero fu distrutto, insieme a quello di Montecassino, nel sec. IX ad opera dei Saraceni.
Indubbiamente il monastero italiano più famoso è Montecassino: restaurato nel 717 da papa Gregorio II (715-731), in breve divenne un centro monastico al quale si guardò da tutta Europa per appredervi il vero spirito di s. Benedetto. Da questo cenobio di Montecassino papa Gregorio III (731-741) chiamò l'anglosassone Willibaldo per affiancarlo a san Bonifacio nell'opera di evangelizzazione della Germania.