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Storia del Concilio Costantinopolitano I (381)

L'eresia ariana non fu sconfitta così facilmente, ci volle un secondo concilio, quello di Costantinopoli, in cui ribadire ancora la condanna agli ariani e condannare i macedoniani


I macedoniani accettavano la divinità del Figlio, ma vedevano lo Spirito come un angelo. Il canone 3 del concilio dà al vescovo di Costantinopoli il primato dopo quello della chiesa di Roma, infatti Costantinopoli è la nuova Roma, prendendo così il posto di Alessandria.

Grazie a Gregorio di Nazanzio, promosso alla cattedra di Costantinopoli, nel linguaggio teologico erano entrati i termini ousia per indicare la sostanza di Dio e ipostasi per esprimere l'esistenza individuale in cui si manifesta la sostanza del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Mentre merito di Basilio il Grande, vescovo di Cesarea, fu quello di aver dichiarato la divinità e la consustanzialità dello Spirito Santo, per cui affermò che in Dio c'è una sola una sostanza e tre ipostasi, indicate anche con il termine di persone e lo Spirito è consustanziale al Padre e al Figlio. Questa dottrina fu però insidiata dai fautori di Macedonio di Costantinopoli, chiamati pneumatomachi, per i quali lo Spirito non aveva la dignità divina del Figlio, essendo un ministro, un interprete, una specie di angelo. E i fautori di questa dottrina, detti macedoniani, si ritenevano difensori del concilio di Nicea.

Da qui la necessità di una discussione comune su questi problemi che travagliavano le chiese di Oriente e di Occidente, necessità sostenuta da Basilio, a partire dal 377.

Al Concilio di Antiochia, del 379, i 153 vescovi presenti furono concordi nel confermare l'unità della fede con Roma e coi vescovi occidentali, condannando sia l'arianesimo, sia l'eresia di Apollinare, vescovo di Laodicea (310ca.-390ca.) in Siria (apollinarismo).

Apollinare, pur ritenendosi difensore del credo niceno, negava in Cristo la presenza di un'anima razionale umana e sosteneva che il Logos svolgeva le funzioni di guida e occupava il posto di essa. Basandosi sull’antropologia di Platone, secondo cui ogni uomo ha un corpo, un’anima irrazionale (principio vitale dell’essere animato) e un’anima razionale, per Apollinare il Logos avrebbe assunto la carne e solo l'anima irrazionale; con ciò intendeva spiegare l'unità del Cristo e la sua esenzione dal peccato. L’umanità di Cristo, mancando dell’anima razionale, risultava però incompleta. Identificando poi natura e persona, Apollinare insegnava che in Cristo c'era una sola natura. Questa eresia fu appunto combattuta da Gregorio di Nissa, e condannata dai sinodi di Roma (377), al tempo di papa Damaso, di Alessandria (378).

L’imperatore Teodosio I, per consolidare la fede, il 27 febbraio 380, promulgò un primo editto, seguito nel gennaio 381, da un secondo con cui si obbligavano tutti i sudditi dell'impero a professare "la religione che l'Apostolo Pietro aveva un tempo assegnato ai Romani e che attualmente seguono il pontefice Damaso e Pietro vescovo di Alessandria". Tale fede riguardava l'unica divinità del Padre, Figlio e Spirito Santo per cui era da tributare loro lo stesso onore nell'e­guale Maestà e Trinità (Sozonemo, Historia ecclesiastica, PG, 67, 1421s). L'imperatore indicava così, nei vescovi di Roma e di Alessandria, gli arbitri dell'ortodossia e apriva la strada alla convocazione di un concilio allo scopo di consolidare la condanna contro gli ariani e di prendere qualche decisione anche sull’arcivescovo di Costantinopoli Massimo, un filosofo che, consacrato irregolarmente, aveva spodestato Gregorio di Nazanzio, vescovo di Sasima chiamato a Costantinopoli, nel 378, dai vescovi fedeli alla dottrina Nicena, infrangendo così uno dei canoni di Nicea che vietava il trasferimento di sede.

Il concilio fu convocato per il maggio 381 e vi intervennero 150 padri orientali, tutti di fede ortodossa perché i pneumatomachi, cioè gli avversari dello Spirito, se ne erano allontanati fin dall’inizio. Per i vescovi Occidentali era invece previsto un diverso concilio, da tenersi, come di fatto avvenne, ad Aquileia, sotto la presidenza del vescovo Ambrogio.

Tra i padri più eminenti: Gregorio di Nazanzio, Gregorio di Nissa, fratello di Basilio e filosofo del gruppo dei tre Cappadoci e Cirillo di Gerusalemme, Melezio di Antiochia, cui fu affidata la presidenza; mentre mancò una partecipazione diretta dell’imperatore ai dibattiti dell’assemblea. Nel frattempo, dopo la condanna di Massimo, veniva creato legittimo vescovo di Costantinopoli Gregorio Nazanzieno; questi, per l’improvvisa morte di Melezio, presiedette il Concilio fino all’arrivo di Acolio che doveva rendere note le istruzioni di papa Damaso circa la cacciata di Massimo e l’elezione del nuovo vescovo di Costantinopoli. Ma giunse intanto Timoteo di Alessandria che dichiarò nulla la designazione di Gregorio, che rinunciò alla cattedra episcopale. Nettario, creato vescovo, battezzato e consacrato, presiedette il concilio fino alla sua conclusione.

Questo primo concilio di Costantinopoli, inaugurato nel mese di maggio e durato fino all’inizio di luglio, fu una condanna dura e determinante dell’arianesimo che, dalla morte di Costantino, non aveva fatto che prosperare sotto la protezione della politica di Costanzo e ancor più di quella di Valente, colpì anche la nuova eresia (“macedonianismo” o dei “pneutomachi”), che, pur concedendo la natura divina al Figlio, la negava allo Spirito Santo.

Come per Nicea, non possediamo gli atti e le notizie sono assai scarne. Oltre al simbolo, i documenti autentici sono solo quattro canoni, con la lista delle sottoscrizioni. Il testo del simbolo, che ci è noto attraverso gli atti del concilio ecumenico di Calcedonia, presenta notevoli difficoltà. Alcuni sostengono che il concilio aveva composto un nuovo simbolo; ma negli antichi testi, fino al Concilio di Calcedonia, non si fa di esso menzione alcuna e si dice semplicemente che il concilio costantinopolitano aveva confermato la fede nicena con poche aggiunte circa lo Spirito Santo per confutare l’eresia dei penutomachi. L’ipotesi più accreditata però è quella avanzata da J. Lebon il quale ritiene che il simbolo, per essere adattato ad usi battesimali, rivestì diverse forme; una di queste era stata confermata dal concilio di Costantinopoli, ricevendo alcune aggiunte nella parte riguardante lo Spirito Santo. Queste forme, con varianti anche di un certo rilievo, erano state accomunate sotto la definizione di “fede di Nicea”, finché i padri di Calcedonia distinsero tra la forma del simbolo della primitiva fede nicena e quella adottata dal concilio di Costantinopoli: da quel momento il simbolo costantinopolitano si diffuse come professione di fede dei “150 padri”.

Questo il testo:

“Noi crediamo in un solo Dio, Padre onnipotente / creatore del cielo e della terra, / di tutte le cose visibili e invisibili / e in un solo Signore, Gesù Cristo / unigento figlio di Dio / nato dal Padre prima di tutti i secoli: / luce da luce, Dio vero da Dio vero / generato, non creato, della stessa sostanza del padre / per mezzo di lui tutte le cose sono state create. / Per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo e per opera dello Spirito Santo si è incarnato nel seno della Vergine Maria e si è fatto uomo / Fu crocefisso per noi sotto Ponzio Pilato, soffrì e fu sepolto / Il terzo giorno è resuscitato, secondo le scritture, / è salito al cielo, siede alla destra del Padre. / E di nuovo verrà, nella gloria, / per giudicare i vivi e i morti / e il suo regno non avrà fine. / Crediamo nello Spirito Santo, che è Signore e dà la vita / e procede dal Padre. / Con il Padre e il Figlio è adorato e glorificato / e ha parlato per mezzo dei profeti. / Crediamo la Chiesa, una, santa, cattolica e apostolica. / Professiamo un solo battesimo per il perdono dei peccati. / Aspettiamo la resurrezione dei morti / e la vita del mondo che verrà. Amen”.

In questo simbolo è incluso e incorporato tutto il simbolo di Nicea, tranne le tre espressioni seguenti: “ossia della sostanza del Padre”; “ciò che è in cielo e ciò che è sulla terra” e “Dio da Dio”. Le ultime due sono state omesse forse perché ritenute ripetizioni: “Dio da Dio” può passare sotto silenzio, stante l’affermazione “Dio vero da Dio vero”. La frase “Ciò che è in cielo e ciò che è sulla terra” è detta in altro modo laddove è detto che il Padre è “creatore del cielo e della terra”. Non è chiaro invece il motivo dell’omissione “ossia della stessa sostanza del Padre”.

In questo simbolo vi si ritrova interamente anche il simbolo degli apostoli in uso a Roma e in Occidente, ma con alcune differenze. Il simbolo di Costantinopoli non dice che egli “risuscitò da morte”; al posto del “natus” latino, dice “incarnato”, “fatto carne”; al posto di “resurrezione della carne” del simbolo romano, si legge “resurrezione dei morti”. Il “simbolo degli apostoli” chiama la Chiesa “santa”, attributo che è incerto per il simbolo di Costantinopoli.

Vi sono inoltre degli incisi, subito dopo “nello Spirito Santo” i quali non si trovano nei simboli precedenti, ad eccezione “che ha parlato per mezzo dei profeti”, che si trova nel simbolo di Gerusalemme, spiegato da s. Cirillo verso il 350. Il più interessante di tutti gli incisi è “il suo regno non avrà fine” per condannare la dottrina di Marcello d’Ancira e di Fotino i quali sostenevano che, dopo il giudizio finale, l’unione ipostatica del Verbo con la sua umanità si sarebbe dissolta. Questo, come altri incisi confluiti nel simbolo di Costantinopoli provenivano dal simbolo di Gerusalemme; quelli però relativi allo Spirito Santo sono nuovi e originali.

Per proclamare che la terza Persona della Trinità è Dio, non era possibile partire, come nel caso del Verbo, dalla filiazione divina propriamente detta, che implicava una vera generazione dall’essenza del Padre e quindi l’uguaglianza della essenza. Origene aveva annoverato fra le dottrine opinabili quella che diceva che lo Spirito Santo procedeva per generazione. La teoria restò però l’unica nel suo genere; e in evidente contrasto con il titolo di “Unigenito” che la Scrittura dà al Verbo. Sino al sorgere del macedonianismo, la teologia dello Spirito Santo si mantenne allo stato primitivo, embrionale. I Pneumatomachi non pubblicarono opere a sostegno dello loro tesi, mentre nell’altro campo sant’Atanasio, san Basilio, san Gregorio di Nazanzio, sant’Epifanio e Didimo illustrarono con argomenti attinti dalla Scrittura e con analogie teologiche la dignità dello Spirito Santo uguale a quella del Padre e del Figlio. E gli aspetti peculiari del Simbolo di Costantinopoli sono come cristallizzazione condensata dei loro insegnamenti.

Si noti inoltre che nel simbolo di Nicea, ora incorporato in quello di Costantinopoli, si dà a Gesù Cristo il titolo di “un solo Signore” per chiamarlo con un appellativo divino e perché lui stesso se l’è attribuito nel vangelo (“vos vocatis me Magister e Dominus, et bene dicitis”, Gv 13, 13). Mentre allo Spirito Santo il simbolo di Costantinopolo dà il titolo di Kyrios, Signore, parola maschile, preceduta però dall’articolo neutro (to) che va tradotto non con “il Signore”, ma con una perifrasi, quale: “colui che è della categoria del Signore”, conferendogli così un titolo strettamente divino che trova più frequentemente unito col Padre e il Figlio, ma che conviene anche alla terza Persona, non appartenendo questa alla categoria servile delle creature (Basilio di Cesarea, "Trattato sullo Spirito Santo”).

L’espressione “colui che dà la vita”, già usata da san Basilio -sia nel Libro Contro Eunonio, sia nel Trattato sullo Spirito Santo- e da san Gregorio di Nazianzo, nei Discorsi teologici, sta a significare che lo Spirito Santo è causa vivificante, essendo Colui che dà la vita (Rm 8, 11) e del quale tutti partecipano; avendo una funzione divina -quella di dare la vita che egli possiede per natura e quella che consiste nell’ispirare il futuro ai profeti- quindi egli è Dio.

Quindi, trascrivendo la parola del Signore dal vangelo di s. Giovanni, il Concilio definisce che lo Spirito Santo “procede dal Padre”. Procede, ma senza essere generato. Pur non essendo generato, il procedere dal Padre dimostra ed implica la sua natura divina uguale a quella del Padre.

Contro gli avversari che dicevano: per essere Dio lo Spirito dovrebbe essere o “non generato” ossia senza principio, o “generato”; ma egli non è né “non generato”, né “generato”; quindi non è Dio. Non può essere “non generato”, perché allora avremmo due principi in Dio, il Padre e lo Spirito. Egli non è a maggior ragione “generato”, perché se lo fosse dal Padre, ci occorrerebbe dire che lo Spirito Santo è il fratello gemello del Verbo. E se fosse generato dal Figlio sarebbe il nipote del Padre. Contro queste argomentazioni san Gregorio di Nazanzio, nei Discorsi teologici, sostiene che oltre al generato e al non generato c’è colui che procede dal Padre e questi è lo Spirito Santo: “in quanto procede dal Padre -dice s. Gregorio di Nazanzio- non è una creatura; in quanto non è generato non è il Figlio; in quanto è tra il non generato e il generato egli è Dio”.

La processione -che per la teologia del tempo significava la nota caratteristica dello Spirito Santo, la sua venuta immanente dal Padre, essendo una sola sostanza con lui e con il Figlio- è il termine misterioso che il simbolo di Costantinopoli non spiega. Da parte sua San Gregorio di Nazanzio, a coloro che gli chiedevano cosa è questa processione rispondeva: dimmi come avviene l’agenesia del Padre e io ti spiegherò la generazione del Figlio e la processione dello Spirito Santo e tutti e due farneticheremo, fissando i nostri occhi sui misteri di Dio. Agli avversari che gli obiettavano dicendo che niente mancherebbe allo Spirito per essere Figlio, se ricevesse la natura del Padre, rispondeva che il problema non è che “manchi” qualcosa allo Spirito, allo stesso modo che non manca qualcosa al Figlio per essere Padre e al Padre per essere Figlio.

La diversità delle loro relazioni è fra i Tre ciò che fonda la diversità dei nomi con cui noi li caratteriziamo, in modo da esserci una distinzione, senza confusione delle tre ipostasi, nell’unica natura e dignità della divinità. Ne consegue che lo Spirito Santo è Dio in tutto e per tutto e perciò consustanziale (homoousios), perché è Dio.

“Che con il Padre e il Figlio, è congiuntamente adorato e glorificato”. In latino “simul adoratur”, mentre il testo greco dice che, in “una stessa” adorazione, noi adoriamo il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. Tradotta esattamente è invece la parola “conglorificatur”, dove la gloria si riferisce soprattutto alla liturgia: è la doxa che, nel culto, si rendeva a Dio, donde il termine tecnico di “dossologia”.

Il simbolo di Costantinopoli afferma che il culto di adorazione e di glorificazione che è reso nella Chiesa allo Spirito Santo è quello stesso che viene reso al Padre e al Figlio. Adorando Dio, noi adoriamo il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, congiuntamente, senza separarli: il culto dovuto all’uno è reso anche all’altro. In altre parole si dice che lo Spirito Santo ha la stessa dignità e la stessa maestà del Padre e del Figlio, è quindi della stessa sostanza divina, non essendo di una categoria inferiore. Da qui la dossologia da san Basilio di Cesarea: “Gloria al Padre, col Figlio, con lo Spirito Santo” (Trattato sullo Spirito Santo), in quanto l’adorazione per lo Spirito santo è inseparabile dal Padre e dal Figlio. I primi difensori di questa adorazione si erano appoggiati sulla formula del battesimo e su altri testi del Nuovo Testamento che giustificano l’uso liturgico di glorificare con la stessa dossologia il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. Mentre san Basilio afferma che “l’Antico Testamento ha annunciato chiaramente il Padre e, più oscuramente, il Figlio. Il Nuovo ha rivelato il Figlio e ha insinuato la divinità dello Spirito. Ora lo Spirito è tra noi e si manifesta più apertamente”. Con ciò intese spiegare, contro gli avversari dello Spirito, la ragione per cui il Nuovo Testamento non afferma in modo esaustivo ed evidente la sua divinità.

“Che ha parlato per mezzo dei profeti” Questa espressione, che nel terzo secolo aveva un indirizzo antignostico, in opposizione all’errore di Marcione, sembra, nel testo del simbolo di Costantinopoli, confermare la divinità dello Spirito Santo, proclamata già dagli incisi anteriori. Si deduce la divinità dello Spirito dal suo ruolo attivo che ha con il Verbo nell’ispirazione dei profeti.

Da una lettera inviata a papa Damaso dai vescovi riuniti a Costantinopoli in un successivo concilio, tenuto nel 382, si apprende che nel precedente concilio i padri, seguendo il Concilio di Nicea, avevano definito la consustanzialità e la coeternità delle tre Persone divine. La fede nicena "ci insegna a credere nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, cioè in una sola divinità, potenza, sostanza del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, in una uguale dignità e in un potere coe­terno, in tre perfettissime ipostasi, cioè in tre persone perfette; in modo che non abbia spazio la follia di Sabellio che confonde le ipostasi e sopprime le proprietà personali, né prevalga la bestemmia degli eunoniani, degli ariani, dei penumatomachi, i quali dividono la sostanza o natura e la divinità e aggiungono, all’increata, consostanziale e coeterna Trinità, una natura posteriore, creata o di diversa sostanza".

Il concilio di Costantinopoli del 381 -confermata la fede nicena, condannate vecchie e nuove eresie (eunomiani, ariani, macedoniani, sabelliani, marcioniani, apollinaristi) e definita la divinità dello Spirito Santo, formulò quindi quattro canoni disciplinari contro l’eresia ariana e le sue sette (c. 1), sulla chiara determinazione del potere dei vescovi ai quali si proibiva di immischiarsi negli affari delle altre diocesi (c. 2), sulla sede di Costantinopoli, cui si attribuiva il primato d’onore, dicendola seconda in onore e dignità dopo la sede romana (c. 3), sulla condanna di Massimo e dei suoi seguaci (c. 4).

Di notevole portata i canoni 2 e 3. Il canone 2 si preoccupa di ripristinare la costituzione provinciale fissata da Nicea, ribadendo la giurisdizione del sinodo metropolitano per tutte le questioni attinenti la provincia. Oltre ciò rinnova i privilegi della sede antiochena e conferma la prassi abituale nei confronti delle chiese di missione, secondo cui dovevano continuare a dipendere, per il governo ecclesiastico, dai centri originari della loro organizzazione. Tuttavia il canone introduce una unità più ampia della provincia, la ‘diocesi’, ricavata essa pure dalla amministrazione civile dell’impero. Mentre l’origine del canone 3, che certamente andava incontro ai desideri dell’imperatore, aveva un chiaro risvolto antialessandrino e forse anche antiromano, in quanto, contro le pretese di Alessandria per la supremazia nella chiesa orientale, rivendica, per il vescovo di Costantinopoli, "il primato d'onore, dopo il vescovo di Roma, essendo questa città la nuova Roma"; vi si riconosce il primato romano, ma, scavalcando Alessandria e Antiochia, si infrange il principio dell'apostolicità nella gerarchia ecclesiastica. Da questo canone avranno in seguito origine le contese fra la prima e la seconda Roma.

I canoni successivi, cioè 5 (il Tomo o documento degli occidentali dove si difendeva la causa di Paolino Antiocheno, è bene accetto) e 6 (condizioni per essere ammesso ad accusare un vescovo o un chierico), sono stati redatti nel Concilio di Costantinopoli del 382; invece il canone 7 (come bisogna accogliere coloro che si avvicinano all’ortodossia, sfuggendo l’eresia) è tratto dalle lettere inviate dalla Chiesa di Costantinopoli a Martirio Antiocheno.

Il concilio terminò il 9 luglio 381 e Teodosio il 30 luglio dello stesso anno, su richiesta dei padri conciliari, confermò con un editto, i suoi decreti. Questo concilio di Costantinopoli, convocato dall'imperatore senza alcun intervento del vescovo della prima Sede, cioè di Roma, divenne ecumenico per un consenso ecclesiale successivo al fatto. Lo si ritenne tale dal 382, ma papa Leone I e Gregorio I, sostennero che i canoni di questo concilio non furono mai comunicati alla loro sede. Tuttavia Gregorio I ne proclamò l’autorità dogmatica -senza però approvarne i canoni - con queste parole: “confesso di venerare e di accogliere i quattro concili come i quattro libri del santo evangelo”.

Indubbiamente questo concilio assolse al compito di garantire la continuità con la tradizione di fede, rappresentata dal simbolo dei 318 padri, esplicando la dottrina in relazione alle nuove esigenze e alle nuove sfide. In seguito, con i concili di Efeso (431) e Calcedonia (451), si formulò definitivamente il simbolo fonda­mentale della fede.

Il simbolo costantinopolitanto, in oriente, fu adottato nel sec. VI, come simbolo battesimale e, intorno al 480, anche nella liturgia della messa. In occidente il simbolo apparve, come professione di fede, nel 589, al III concilio di Toledo (can. 8), all'interno della messa cantata della liturgia latina mozarabica. Era allora vescovo san Leandro il quale si era forse ispirato all’esempio di Costantinopoli che aveva conosciuto mentre viveva nella capitale bizantina, dove era in uso la formula teologica che lo Spirito “procede dal Padre per mezzo del Figlio”, formula che però in occidente non venne utilizzata. E' nella versione spagnola del simbolo che si trova per la prima volta il termine Filioque (cioè lo Spirito Santo procede dal Padre e dal Figlio); mentre la Chiesa greca insegnava una processione dal Padre, attra­verso il Figlio; que­sta deri­vazione dal Padre e dal Figlio (a Patre fi­lioque procedens) fu dunque una innovazione che tuttavia fu accettata dai sinodi del Friuli (791) e di Francoforte (794). Il sinodo di Aquisgrana (809) chiese a Leone III che il Filioque venisse accolto come simbolo di tutta la Chiesa. Il papa non accolse la richiesta non perché rifiu­tasse la formula, ma perché aveva riguardo di ag­giun­gere qualcosa al simbolo, così come era stato tramandato.

L’inserzione del Filioque nel simbolo dei Latini, ancorché non esteso a tutto l’Occidente, divenne una pietra di scandalo per i bizantini che, da Fozio (858-880) in poi, attaccarono l’ortodossia della Chiesa romana. Nello stesso occidente l’introduzione fu lenta. Fu Enrico II ad ot­tenere da Benedetto VIII che, durante la messa della sua incorna­zione (1014), si cantasse il Credo con l'aggiunta del Filioque. Ai concili di Lione II (1274) e di Firenze (1439) l'ag­giunta fu ricono­sciuta come autentica dai Latini e da alcuni Greci, in quanto fu dimostrato che le due formule esprimono lo stesso contenuto teologico, con sfumature tuttavia diverse.