Santa Margherita da Cortona | |||
Per alimentarsi e mantenere agli studi il figlio inizialmente prese ad assistere le gestanti. Successivamente si dedicò ad opere di carità, specialmente verso gli ammalati per i quali, insieme a Diabella, la donna che l'aveva ospitata, fondò nel 1278 la fraternita ospitaliera "Casa di San Maria della Misericordia". Fino al 1288 Margherita abitò una cella a fianco della chiesa di San Francesco; ma prima che terminasse l'anno l'abbandonò per trasferirsi in San Basilio (1291), presso la rocca della città e qui rimase fino alla morte (1297), salvo un breve intervallo nel quale ritornò alla cella primitiva. Quando Margherita giunse in quest'ultima cittadina toscana (1272), poco lungi dal Trasimeno e ai confini con l'Umbria, da ormai un decennio la sua laboriosa popolazione, obliterata la profonda umiliazione durata circa quattro anni (1258-1261), grazie all'influenza della famiglia Casali, si apprestava a gettare le basi per la costituzione di una città-stato, una "civitas -secondo la definizione di Bartolo da Sassoferrato- superiorem non recognoscens". Fu un periodo di espansione economica -riprova ne è il soldo cortonese adottato da molte città dello Stato della Chiesa- e di crescita politica coronata da due successi: nel 1312 Arrigo VII di Lussemburgo dichiarò Cortona città libera e imperiale; mentre nel 1325 -l’anno stesso in cui furono promulgati i nuovi statuti comunali- Giovanni XXII la elevò alla dignità di diocesi. E ciò nonostante che, all'epoca, il centro contasse poco più tremila abitanti. I frati minori erano giunti a Cortona nel secondo decennio del sec. XIII, ma si erano insediati in località le Celle, una zona eremitica -come appunto recita il termine- a tre chilometri dalla città e a ridosso del monte Egidio. Quivi nel 1240, al seguito di Federico II, giunse fra Elia, già vicario di San Francesco (1221-1227) e, da pochi mesi, esonerato dalla guida dell'Ordine (1232-1239). Grazie al felice rapporto che aveva personalmente instaurato con le autorità comunali, fra Elia fece costruire un nuovo convento: il che, tra l'altro, comportò un notevole mutamento dell'assetto urbanistico: fra Elia morì alle Celle, il 22 aprile 1253, senza poter ricevere il sacramento dell'unzione degli infermi, perché l'intero territorio cortonese era stato colpito dalle censure ecclesiastiche. Neppure un anno dopo, terminata la fabbrica del convento in Cortona, i frati minori, abbandonato l'eremo, si erano già trasferiti in città. Nonostante il crollo del partito imperiale, Cortona era rimasta di fede ghibellina; a segnare una svolta fu però l'intervento armato degli Aretini che, su richiesta dei fuorusciti guelfi, nella notte tra l'1 e il 2 febbraio 1258, misero a ferro e a fuoco la città, costringendo 424 famiglie ad abbandonare le loro case e ad attendarsi nei pressi di Castiglion Chiusino, oggi Castiglion del Lago, sul Trasimeno. Ben poco sfuggì al saccheggio degli Aretini; stando alla legenda del Beato Guido, unico tesoro che i Cortonesi riuscirono a salvare, furono appunto le reliquie di questo Beato. Dei fatti si ha un eco nella legenda di Margherita dove la Santa, tra i peccati di una signora cortonese, elenca quello di "non aver avuto dolore nella distruzione della sua città, anzi d'aver voluto che un partito vincesse l'altro e prendesse il potere. Per questo ebbe una occulta invidia contro molti suoi parenti, perché non stavano nel conflitto dalla parte di suo marito". L'esilio durò circa tre anni, finché la vittoria dei ghibellini a Montaperti favorì il rientro dei fuorusciti i quali, guidati -stando alla tradizione- da Uguccio dei Casali il vecchio, giunsero a Cortona il 25 aprile 1261. Ristabilita la pace con Arezzo, si provvide anche ad una riconciliazione tra popolari al potere e magnati, appunto i guelfi i quali furono riammessi in città. Sono queste le paci di cui, a lungo, si parla nella legenda dove si fa anche cenno a un nuovo attrito tra Guglielmino degli Uberti, il vescovo di Arezzo e i magistrati di Cortona, contrasto che si risolse, nel 1277, con un accordo fra le parti. Un ennesimo tentativo da parte dei magnati di abbattere, col favore degli Aretini, il reggimento popolare spinse i Cortonesi a eleggere, nel 1325, lo stesso anno in cui la città veniva elevata a sede di diocesi, Ranieri Casali quale signore a vita di Cortona: il che diede inizio al dominio dei Casali durato 83 anni, 7 mesi e 8 giorni. La chiesa di San Francesco, iniziata a costruire non prima del 1246, posta com'è in posizione dominante e in stretta relazione con il palazzo del Comune e il palazzo del popolo -cioè gli edifici rappresentativi del potere laico- fu concepita come nuovo polo del potere religioso. Un'eccezione rispetto alla regola che voleva gli insediamenti dei mendicanti nelle immediate vicinanze delle mura e distribuiti seguendo un piano di spartizione dell'area cittadina. Il che condizionò il processo di inserimento degli altri ordini mendicanti, successivamente giunti a Cortona. I primi furono gli agostiniani (1256) poi fu la volta dei domenicani (1264) e dei servi di Maria (1289). Dalla legenda di fra Giunta emergono talune delle funzioni svolte dai mendicanti a Cortona: dalla predicazione alla confessione, fino all'impegno civile con il ristabilire la concordia, promovendo ovunque la pace. Li affiancavano dei laici, organizzati in confraternite dedite al culto e al servizio dei poveri. Celebre la confraternita dei laudesi, un movimento sorto nel secolo XIII, che trovò accoglienza presso la chiesa di San Francesco. Fra Giunta ricorda come, intorno al 1289, fu per loro scavata una sede sotto la chiesa di San Francesco. Da questa confraternita proviene il cod. 91, alla Biblioteca comunale di Cortona, il più importante documento per la lauda del sec. XIII. In seguito furono istituite nuove compagnie di laudesi nelle altre chiese di mendicanti e persino in alcune parrocchiali. Come in tutti gli insediamenti posti lungo importanti strade di comunicazione, anche a Cortona erano stati eretti numerosi ospitali. Quello di San Giuliano de Bevarco, di pertinenza del vescovado, fu soppresso nel 1256 per costituire il patrimonio monastico delle clarisse di Targia, monastero, fondato nel 1225 sotto il titolo di San Maria, da Azolo prete, nel contado di Cortona. Nel 1229 Gregorio IX aveva accolto le religiose nell'Ordine delle damianite, con bolla 'Religiosam vitam eligentibus'. Due successivi interventi, dello stesso Gregorio IX, segnarono una svolta nella storia della comunità: il 6 dicembre 1230 il pontefice concesse la facoltà del numero chiuso -le religiose non dovevano oltrepassare il numero di venti, e ciò a motivo della loro povertà- quindi, nel 1237, risultando poco adatto alla vita religiosa comunitaria il sito eremitico da loro abitato, le clarisse chiesero ed ottennero dal pontefice di trasferirsi nei pressi delle mura di Cortona, in località Targe "delle piaggie". Fece da amministratore Frangipane di Vitale da Perugia, uno dei cappellani che papa Gregorio IX andava utilizzando per la gestione economica dell'Ordine delle damianite. Costrette ad abbandonare Cortona, dopo il sacco operato dagli Aretini (1 febbraio 1258), le clarisse si trasferirono in San Giuliano di Toscanella da dove, nel giro di pochi anni, partirono due gruppi: un piccolo numero di donne andò a fondare un nuovo monastero a Corneto (Tarquinia), mentre la parte più consistente della comunità, costituita da ventidue monache, rientrò a Cortona intorno ai primi mesi del 1263. Nell'aprile di questo anno il card. Stefano Ungaro, protettore delle clarisse, stabilì ciò che doveva appartenere alle monache di Cortona e ciò che invece spettava a quelle rimaste a Toscanella e a quelle andate a Corneto. Quando Margherita giunse a Cortona non era stata ancora istituita in loco una fraternita di penitenti- per cui Margherita si recò da fra Ranaldo, custode d'Arezzo, una delle sette custodie della Tuscia- dal quale dipendeva appunto il convento di Cortona; questi, "dopo molte insistenze", accolse la domanda e lui stesso la vestì. Al momento della professione, puntualmente registrata dal notaio, Margherita dettò anche il suo testamento nel quale -alla maniera delle oblate- scelse, come chiesa sepoltuaria il convento dei frati minori di Cortona. Con la professione Margherita fece anche la scelta di ritirarsi in un "carcere" eremitico posto dentro Cortona, nei pressi di porta Berarda. La venuta di Margherita a Cortona coincise con una ripresa del movimento penitenziale, attestata in tutta Europa, come si evince dalle denunce fatte al concilio Lionese II, movimento che a Cortona diede vita, nel giro di circa trenta anni, ad almeno quattro nuovi monasteri, eretti tutti lungo la parte alta della città e nei pressi di porta Berarda. Nelle Memorie della Congregazione delle Santucce, redatte dal Garampi, si legge che "nel 1270, ai 24 di maggio, Guglielmo vescovo di Arezzo, donò alla Beata Santuccia un luogo presso Cortona nella valle detta Fonte Tebaldesca per ivi fondare un monastero sotto il titolo di San Maria Maddalena". Di questo monastero la Cronaca, redatta con i documenti di San Maria in Julia a Roma -la casa generalizia della congregazione- ricorda numerosi atti di soggezione alla Congregazione -dal 1305 al 1550- nonché i nomi di alcune badesse. Vaghe invece le origini dell'altro monastero, cui aderirono alcune nobildonne di rango comitale, da qui l'appellativo di contesse: a quanto sembra alcune penitenti, nel 1268, sotto la guida carismatica di donna Andreina Baldinucci dei Conti di Cegliolo, si insediarono in San Maria de Margnano, già monastero delle clarisse e dal vescovo diocesano, sulla fine del Duecento, ricevettero l'approvazione, con l'assegnazione della regola benedettina e Andrea ne fu la prima badessa canonica. Forse in questi stessi anni fu aperto anche un monastero intitolato a San Croce e affiliato all'Ordine vallombrosano che, nel suo massimo splendore, accolse fino a sessanta monache; mentre il monastero di San Michelangiolo, ricordato come il precedente negli Statuti del 1325, fu fondato nel 1305 da suor Guelfuccia, terziaria francescana; la comunità fu però in seguito istituzionalizzata con regola benedettina. Il movimento penitenziale femminile -che in Italia aveva fatto la sua apparizione agli inizi del secolo XIII, sotto forma di reclusione urbana, coinvolgendo prima il patriziato e la borghesia, quindi le donne del popolo- aveva avuto un duplice esito: da una parte la vita associata; dall'altra la vita solitaria. Penitenti di vita comune ed eremite erano chiamate, pur con una sottile distinzione, cellane, bizzoche, pinzochere, oblate, recluse. Con la differenza che le recluse di vita comunitaria, attese le preoccupazioni delle autorità religiose a motivo del pericolo dell'eresia, ma anche considerata l'opportunità di conseguire una personalità giuridica, si trovarono nella necessità di chiedere al vescovo diocesano una delle regole approvate. Diversamente, le recluse solitarie non preoccuparono più di tanto le autorità religiose, mentre le autorità civili, impressionate dall'aspra vita di penitenza e convinte della funzione sociale e apotropaica -in vita e in morte- di queste eremite della città, videro con favore la scelta di queste donne di ritirarsi nei pressi delle porte, o lungo le mura cittadine e di conseguenza le fecero destinatarie della pubblica elemosina e, una volta morte, ne promossero il culto: un fenomeno largamente diffuso, sulla fine del Medio Evo, specie nell’Italia centro-settentrionale. Apparentemente la vicenda di Margherita poco si discosta da quella di tante pinzochere o cellane solitarie che, tra XIII e XIV secolo, popolarono l'Italia centrale, alcune delle quali erano oblate di una chiesa, di un convento o di un istituto assistenziale. Margherita fu terziaria e oblata del convento dei frati minori, ma appartenne anche alla categoria delle incarcerate: recluse o cellane che, pur vivendo in mezzo agli uomini, facevano deserto ritirandosi in una cella. Un giorno Cristo ebbe a dirle: "Mi hai chiesto di poter vivere nella stessa condizione di solitudine di Maddalena. Ebbene io non ti destino a vivere in un deserto -i deserti non sono cose adatte ai nostri tempi- ma puoi essere solitaria nella tua città, come se abitassi in un deserto sconfinato". Identica la nozione che si ritrova nella legenda della B. Umiliana de' Cerchi dove sono anche messe sullo stesso piano reclusione urbana e vita monastica di stretta osservanza. Margherita, venticinquenne, avvenente, con un figlioletto a carico, era partita da Montepulciano, dove per nove anni era stata l'amante segreta di un signore morto tragicamente e, rifiutata dai suoi parenti, era giunta a Cortona dove fu accolta da due nobili signore: Marinaria e Raniera, della famiglia comitale dei Moscari. Ben presto Margherita, la quale si era dedicata prima all'assistenza delle gestanti, successivamente ad opere di carità, specialmente verso gli ammalati, incontrò una serie di persone animate dallo stesso spirito di penitenza e di carità, con le quali fece amicizia. Fra queste, Diabella la cui abitazione Margherita trasformò in casa di Misericordia (hospitium misericordie), una fraternita mista, gestita "per aliquot sapientes et discretos viros de Cortona", i cui statuti furono approvati del vescovo Guglielmino nel 1286. Ebbe come compagne Gilia (Egidia) e suor Adriana le quali, morte prima della santa, per le sue preghiere furono liberate dalle pene del purgatorio. Indusse a farsi penitenti Manentessa di Laviano e Margherita da Siena che considerò sua pianticella, con l'incarico quindi di continuare l'esempio e l'insegnamento della Santa dopo morte. A far da tramite tra queste due penitenti omonime fu probabilmente fra Giunta, che era stato trasferito dal convento di Cortona a quello di Siena. Era accaduto che, al capitolo tenutosi in questa città nel 1288, fu toccato anche il problema del movimento penitenziale di Cortona. Il caso della reclusa Margherita, visitata dal frate confessore tutti i giorni e anche più volte al giorno, fece indubbiamente discutere; da qui la decisione -morto nel frattempo fra Giovanni da Castiglione, primo confessore della Santa- di diradare le visite alla cellana da parte del nuovo confessore -il biografo fra Giunta- cui seguì l'ordine allo stesso Giunta di trasferirsi al convento di Siena e forse l'invito alla reclusa di trovarsi un carcere che distasse un poco di più dal convento dei frati minori. Margherita, di fatto, poco dopo se ne partì scegliendo la parte più alta del paese, il colle dove sorgeva la rocca. Quivi Margherita, con i suoi figli spirituali -il presbitero ser Badia Venturi che la penitente, dopo la sua partenza dalla cella di porta Berarda, scelse come confessore; i laici Giovannello e Marzio e altri- avrebbe voluto costituire una comunità regolare composta di chierici e laici, uomini e donne, una specie di monastero doppio, ripetendo esperienze che, nell’Italia centrale, si andavano realizzando anche altrove, cito l'esempio di San Concordio, a Spoleto istituzionalizzato l'8 febbraio 1285. A tal fine chiese al vescovo di poter erigere un oratorio, onde farne la sede canonica della nuova comunità, ma trovò l'opposizione di prete Gilio, fiduciario del vescovo di Arezzo; da qui il monito che Cristo, tramite Margherita, rivolse al vescovo: "Digli che per ottenere il perdono dei suoi peccati non differisca di confermare il titolo della chiesa di San Basilio, per amore mio, che sono il Cristo, Figlio del Dio vivo". Prima ancora che Margherita fosse andata a stabilirsi nel terzo carcere, posto sulla sommità del colle di Cortona, nel luogo detto Marzano, il movimento degli spirituali della Toscana era stato arricchito dalla presenza, ancorché breve, di Pier Giovanni Olivi e di Ubertino da Casale. Quest'ultimo, dopo il noviziato, dalla provincia di Genova era stato mandato a Parigi, dove rimane fino al 1285 (o 1283) anno della sua venuta a Firenze. Quivi trovò Pier Pettinaio e Cecilia da Firenze che gli furono "maestri in scienza pratica". Quindi, dal 1287 al 1299, nello studio di San Croce, ebbe come collega di insegnamento l’Olivi che lo iniziò a una visione gioachimita. Nel prologo all'Arbor vitae Ubertino dichiara che: “in breve tempo preveniente lo Spirito del Signore e della sua santissima Madre, m’introdusse alle profondità delle Sacre Scritture, ai misteri del terzo stato del mondo e del rinnovamento della vita di Cristo, sì che da allora divenni per la mente un altro uomo”. Durante le predicazioni e i pellegrinaggi incontrò il B. Giovanni da Parma che viveva a Greccio, la b. Angela a Foligno e San Margherita a Cortona che, stando a fra Giunta, si recò a visitare accompagnando il di lei figlio, giovane novizio. Quando Ubertino giunse nel 1304 a la Verna, ivi relegato dopo la sfortunata predicazione perugina, da pochi mesi era partito fra Corrado da Offida, vittima di una identica punzione. Racconta fra Giunta che “ci fu una volta un frate, tanto caro a Dio, che si chiamava Corrado, venuto da una Provincia lontana per vedere la serva di Dio Margherita e raccomandarsi alle sue preghiere”. L'incontro fu tutto incentrato sulla devozione e sulle devozioni, a lungo coltivate in seno agli spirituali, tanto da divenire il segno di riconoscimento della prima generazione degli osservanti i quali si qualificavano come frati devoti. Fra Corrado, legato a fra Egidio, terzo compagno di San Francesco e a fra Leone (+ 1271), quarto compagno e confessore di San Francesco, era stato "zelatore della evangelica povertà e della regola di santo Francesco", aveva avuto il privilegio dell’apparizione della Madonna e si era distinto per lo spirito di penitenza e per l'uso povero, tanto che "per cinquantacinque anni o più, portò una tonicha de vecchio e vile panno, repezzata de sacco et de altre pezze, non portandone più, andando sempre scalzo. Et excecto la tonicha et la corda et le mutanne, non volse mai havere altro nella sua vita". Al tempo del generalato di fra Bonagrazia (1279-1283) fra Corrado era stato confinato a la Verna dove riprese gli studi e fu ordinato sacerdote, ma era restio a celebrar messa. Per aiutarlo a vincere questa ritrosia San Margherita da Cortona (+ 1297), presso la quale Corrado si era recato onde raccomandarsi alle sue preghiere, gli avrebbe ordinato, a seguito di una locuzione, di celebrare la messa puntando sull'aspetto devozionistico e con queste intenzioni: di domenica, in memoria della nascita e resurrezione di Cristo; di lunedì, in suffragio dei defunti che sono afflitti in purgatorio; di venerdì in ricordo della passione di Cristo e di sabato in onore della Madonna. A sua volta però Margherita ne subì il fascino: felice di donare ai poveri tutto quanto aveva, "talvolta rimaneva nuda nella sua cella, avvolta appena da una stuoia o rivestita della sua tonachella o del manto d'un altra sorella", mentre da Cristo ebbe il comando di portare un velo rappezzato e colorato. Fu forse allora che, obliterato l'appellativo di terziaria attestato dalla legenda, Margherita volle essere semplicemente chiamata devota mulier, appunto bizzoca, prendendo con ciò le distanze dagli Ordini mendicanti: con questo appellativo compare nella pala del Duomo di Cortona, opera commissionata dalle sue devote a pochi anni dalla morte: sulla fronte del sarcofago, dove giace la Santa, corre la scritta "+ S(ANCT)A MARGARITA DEVOT<A> MULIER". Margherita morì il 22 febbraio 1297 e il corpo della Santa fu tumulato nella chiesa di San Basilio edifico che era divenuto sede di penitenti di vita comune ai quali però la bolla 'Firma cautela', emanata nel 1296 da Bonifacio VIII contro i bizzochi, impediva il riconoscimento giuridico; da qui l'approvazione come fraternita ospitaliera, quale è appunto ricordata dal testamento dettato 17 maggio 1307 da donna Rinaldesca. Costei, indubbiamente una devota della Santa, pur avendo scelto la sua sepoltura nella chiesa di San Francesco di Cortona, aveva disposto elemosine anche a favore dell'ospitale di San Basilio, della casa della Misericordia e dei frati delle Celle. Il fatto che -dopo il passaggio di Margherita dal secondo al terzo carcere, con un progressivo allontanamento dalla direzione dei frati minori- fra Giunta ribadisce ripetute volte che Margherita appartiene all'Ordine minorita va, a mio giudizio, ricondotto alle tumultuose vicende, vissute in prima persona dagli Spirituali, ma che segnarono anche gli ultimi anni della vita di San Margherita. Già il Vauchez aveva fatto notare come l'autore dell'Arbor vitae fosse stato presente nei destini di quattro sante donne, tutte simpatizzanti per alcune tesi degli Spirituali sulla pratica della regola francescana e sulla questione della povertà e cioè: Margherita da Cortona (+1297) e Angela da Foligno (+1309), Chiara da Montefalco (+1308) e Dauphine de Sabran (+1360). Nell'Arbor vitae -scritto alla Verna nel breve arco di sette mesi e mezzo, dal 9 febbraio al 28 settembre 1305- compare però solo il nome di Angela, ancora vivente, cui Ubertino attribuisce la propria conversione, non i nomi delle altre donne. Viceversa il nome di Ubertino è presente due volte nella legenda di Margherita: nel corpo, per ricordare una visita al carcere seppure in funzione di accompagnatore e nell’appendix o testificatio, dove si dice che il card. Napoleone Orsini autorizzò Ubertino a predicare la legenda, nonostante qualunque precetto passato o futuro. La domanda sul senso e sulla portata di questa autorizzazione è però rimasta finora senza una risposta esaustiva. Salutata come terza stella concessa dal Redentore alla famiglia del diletto Francesco, primo luminare nell'Ordine dei frati minori, mentre la beata Chiara lo era nell'Ordine delle monache, Margherita è vista da fra Giunta come il campione nell'Ordine Terzo o dei Penitenti. Con un simile titolo viene però presentata anche la B. Angela da Foligno in quanto, in una locuzione, lo stesso San Francesco le disse: “Tu sei la sola nata da me”. Fra Giunta e l'anonimo frate scrittore del Memoriale sono frati minori contemporanei, ma appartenenti a province distinte e forse non si conoscevano di persona; mentre con tutta probabilità furono conosciuti e contattati da fra Ubertino alla cui iniziativa si deve l'approvazione delle due opere di alta spiritualità mistica: del Liber, da parte di Giacomo Colonna (1294/1296 ca) e della legenda, da parte di Napoleone Orsini (15 febbraio 1308). Come Angela da Foligno, anche Margherita prende le distanze dai frati minori dei conventi e per Margherita il passaggio dalla seconda alla terza cella sembra riecheggiare la decisione degli Spirituali marchigiani di separarsi dall'Ordine. La scelta di Angela fu religiosa e anche politica, ma fu sostenuta dal partito perdente, appunto dai conti di Antignano, ghibellini di Foligno, amici dei Colonna, messi fuori gioco dal papa e dai Perugini; da qui la vicenda sofferta del suo culto pubblico e del Liber. Diversamente, Margherita, negli ultimi anni della sua vita, ebbe un rapporto di affetto e di simpatia con Guglielmino di Uguccio Casali il cui padre, nel 1278, rivestì la carica di priore dei consoli e delle arti del comune di Cortona, prodromo per una signoria cittadina dei suoi discendenti. Si legge nella continuazione della cronaca di Boncìtolo che, quando Guglielmino Casali andava a trovare Margherita, “lei, come lo vedeva, diceva: Ecco il cavaliere santo. Onde lui gli fece chiedere grazia a Dio che Cortona non venisse più alle mani de' forestieri: il che Iddio gli concesse. Santa Margherita diceva: Ella sarà Gierusalem novella”, profetizzando così la città-stato, appunto la nuova Cortona, sede di diocesi e centro della spiritualità margheritiana. Riferisce fra Giunta che Margherita, nonostante la sua vita ritirata, poiché figlia del popolo, condivise per intero con i suoi concittadini le tribolazioni delle guerre e le stesse sofferenze derivatele dalle contese tra le fazioni. Un giorno Margherita udì il Signore che le disse: “Figlia (...) io pongo te come medicina che guarisce molte anime malate, non solo per questa città, ma anche in molti e lontani paesi e regioni, e ciò per amore tuo”. Il difficile momento, vissuto dalla città di Cortona, è visto da Margherita come conseguenza di una latitanza da parte del clero secolare e regolare: da qui il suo ruolo di profetessa. Costituita dal Signore “voce nel deserto”, ella cercò di mettere Guglielmino degli Ubertini, vescovo di Arezzo, di fronte alle proprie responsabilità; richiamò i frati minori alla loro missione di sacerdoti, di uomini di pace e di servitori dei poveri. Lei stessa, da sola o insieme al suo confessore svolse l'attività di fare "le paci" interne e esterne, mentre con l'aiuto di una fraternita laicale, che faceva capo all'ospizio della Misericordia, provvide all'assistenza dei poveri vergognosi, benestanti che erano caduti in miseria a motivo delle guerre fratricide, ma anche degli Ordini mendicanti, quando i religiosi non fossero riusciti a badare a sé stessi. Da qui la grandezza di una donna -modello della peccatrice redenta- che, riconoscendo in sé l'azione della grazia di Dio si scopre vaso di elezione (Act 9, 15), pur protestando la propria debolezza, memore del detto paolino "virtus in infirmitate perficitur" ( II Cor 12, 9). |