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Leone IX (1049-1054)
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A Damaso II (1047-48), successe san Leone IX (1049-1054), cugino dell'imperatore che tenne sinodi e consolidò le basi per una riforma vera e universale, circondandosi di uomini, che maggiormente la promossero. Figure di spicco della riforma furono Umberto, monaco di Moyenmoutier e dotto canonista, eletto vescovo di Silva Candida e s. Pier Damiano, monaco ed eremita, promosso -da Stefano IX- cardinale-vescovo di Ostia; non figura in primo piano, inizialmente, Ildebrando (il futuro Gregorio VII), che allora aveva l'incarico di suddiacono e tesoriere della Chiesa romana. Leone IX viaggiò molto per presiedere grandi sinodi destinati a restaurare la disciplina e i costumi nella Chiesa. Nel 1049 celebrò sinodi a Roma, Pavia, Toul presso Aquisgrana, Reims, Magonza. Negli anni 1050-1051 si reca in Alsazia, sua patria. Ritornato in Italia, si reca in visita nell’Italia meridionale, tenendo un Concilio a Montesantangelo al Gargano. A pasqua è di nuovo a Roma e, alla fine d’aprile, tiene un sinodo dove vengono condannati gli errori di Berengario sull’eucarestia: questi ammetteva la presenza reale di Cristo nell’eucarestia, ma negava la dottrina della transustanziazione, così come veniva spiegata da Pascasio che minimamente si era posto alcuna domanda sulla natura e sul divenire degli accidenti eucaristici. Nel 1052 intraprese un grande viaggio oltr’Alpi, per raggiungere Enrico III e chiedergli aiuto a favore della politica che intendeva svolgere nel Mezzogiorno d’Italia contro i Normanni che, stanziati tra Napoli e Capua, si davano a devastazioni, seminando ovunque terrore. Contro costoro, nel maggio del 1052 Leone IX organizzò una spedizione militare, di cui prese il comando; ma, privo di rinforzi bizantini, fu sconfitto a Civitella sul Fortore dai cavalieri normanni che, il 23 giugno, lo condussero prigioniero a Benevento, dove rimase sei mesi (autunno e inverno). Quindi, poco prima di pasqua, ritornò a Roma dove poco dopo morì, subito venerato come santo (19 aprile 1054). Lo scisma Sotto s. Leone IX (1049-1054), papa tedesco, si consumò la crisi tra Roma e Costantinopoli. Tra le due Rome all’epoca, se non c’era propriamente stato di guerra, per lo meno i rapporti diplomatici erano rotti. La crisi in atto era dovuta a contrasti ecclesiastico-culturali (diversità di lingua e di carattere, di costituzione ecclesiastica, di liturgia e di teologia) e a differenze politiche (tramonto del dominio bizantino in Italia, unione dei papi con i Franchi e fondazione dello Stato Pontificio; ripristino dell'impero occidentale sotto Ottone I). I bizantini insistevano sull'ortodossia della propria chiesa, mentre giudicavano le usanze particolari della Chiesa latina come una decadenza, rispetto alla tradizione apostolica. Lo scisma, che esisteva latente, scoppiò all'improvviso sotto Michele Cerulario, patriarca di Costantinopoli (1043-1058), il più ascoltato dei consiglieri del Basileus. Fra Bizantini e Tedeschi v’erano stati contrasti a motivo dell’Italia meridionale, ma questi stavano ora per mutarsi in alleanza, grazie ad Argyros, il nuovo governatore d’Italia (catapano), giunto a Bari nel 1051. Questa alleanza era però sfavorevole al patriarca Michele Cerulario: l’unione politica fra il Basileus e l’Occidente avrebbe significato la fine della sua autocefalia. Già nel 1050 Michele Cerulario aveva accusato i Latini, come eretici. Quindi, quale rappresaglia contro la politica di latinizzazione, condotta nell'Italia bizantina -a nome del sovrano- dal governatore Argyros (col quale peraltro il Cerulario era già entrato in contrasto a Costantinopoli) il patriarca, nel 1052, iniziò l’offensiva contro i latini stabiliti a Costantinopoli e contro le chiese in cui celebravano i loro riti. Fu dato ordine di farle chiudere, di confiscare i monasteri latini e furono persino profanate le ostie dei latini e calpestate poiché -dicevano- il pane azzimo (non lievitato), non può essere valdiamente consacrato. Quest’uso del pane azzimo per la comunione era stato però introdotto in Occidente sin dal sec. VIII, cioè da circa tre secoli. Quindi, nella primavera del 1053, seguì una dichiarazione di guerra inviata a Roma dalla chiesa greca e pervenuta proprio nel momento il cui il papa stava allestendo una spedizione contro i Normanni. L'arcivescovo Leone di Ocrida (in Bulgaria) inviò -di certo consensiente Michele Cerulario- una lettera circolare a Giovanni vescovo di Trani (Puglia, nel tema dei Longobardi), un vescovo che, sebbene in territorio bizantino, seguiva il rito latino e dipendeva ecclesiasticamente da Roma. Nella lettera si attaccavano e condannavano violentemente i riti liturgici latini, in particolare l'uso del pane azzimo, accusando gli occidentali di non essere "né giudei, né cristiani" e rivendicando ai bizantini di mantenere la dottrina autentica dei ss. Pietro e Paolo. La lettera era anche diretta, per conoscenza a tutti i vescovi Franchi, cioè latini e allo stesso reverendissimo papa. Il vescovo Giovanni era amico di Argyros: egli era dunque un intermediario; così, atttraverso lui, si voleva colpire il clero latino, ma anche la politica di Argyros. A sua volta dietro Leone di Ocrida v’era il patriarca di Costantinopoli. E la lettera era pertanto il messaggio di Michele Cerulario a papa Leone IX. Leone chiedeva che i latini riconoscessero subito i loro torti, enormi errori che impedivano l’unione fra i cristiani. Erano però quisquiglie liturgiche e questioni alimentari che non toccano il dogma. La lettera, giunta a Roma, fu tradotta, dal greco in latino, dal card. Umberto di Sivacandida, cui il papa diede anche l’incarico di rispondere, controbattendo le tesi. Il card. Umberto, uomo di studio e conoscitore dei testi dell'antico diritto canonico e degli scritti dei Padri greci, rispose con due lettere fatte proprie dal papa e indirizzate all'imperatore e al patriarca. Umberto è brillante nella parte difensiva, dove respinge con genialità le accuse dei Greci; meno felice nella parte aggressiva, dove combatte, come adulterio e eresia nicolaita, il matrimonio degli ecclesiastici che in Oriente era invece in uso sin dall'antichità. Altrettanto infelice l'accusa di macedonianismo, perché i greci avevano levato dal Credo il Filioque, la formula introdotta in Occidente nel Credo nel sec. VI (III concilio di Toledo, del 589) per indicare la processione dello Spirito Santo dal Padre e dal Figlio. Compì poi un atto di arbitrio, asserendo che Cerulario era l'autore della lettera, che invece aveva come solo autore Leone, anche se il patriarca non vi era rimasto estraneo. Nel frattempo la difficile situazione nell’Italia merdionale aveva spinto Michele Cerulario a fare un passo indietro. Subito dopo il disastro di Civita, dove papa Leone IX fu fatto prigioniero, ci fu un appello di Argyros per cui da Costantinopoli partirono due lettere per l’Italia meridionale: l’una del Basileus, l’altra del patriarca. I testi sono andati perduti, sono note però le due risposte della curia. Il patriarca aveva inviato al papa una lettera moderata dove non venivano discusse nessuna delle accuse mosse da Umberto in risposta alla lettera di Leone di Ocrida; si duoleva invece dei lunghi dissensi che separavano le due chiese, di fatto divise dal tempo del patriarca Sergio II (999-1019) che aveva fatto togliere il nome del papa dai dittici, dove figurano le persone da ricordare nei Santi Misteri. Michele Cerulario si dichiarava pronto a rimettere nei dittici il nome del papa, magari in cambio di una menzione del patriarca durante i Santi Misteri dei latini. Stessi i sentimenti che dominavano la lettera dell'imperatore Costantino IX Monomaco (1042-54) il quale si era interposto, per un tentativo di pacificazione; e sinceri erano i suoi desideri di pace fra le due chiese, promettendo di fare tutto il necessario per cavare Leone IX dalla sua penosa situazione di prigioniero. Furono queste due lettere che spinsero Leone IX, allora prigioniero a Benevento, ad inviare a Costantinopoli una delegazione pontificia, un Istituto con pieni poteri che si era rinnovato a partire da questo pontificato.
La delegazione pontificia era composta dal segretario papale -il card. Umberto di Silva Candida dal cancelliere papale Federico di Lorena (più tardi Stefano IX, 1057-58) e da Pietro arcivescovo di Amalfi. Scopo dei legati: esaminare la causa del patriarca Cerulario, accusato di errori dottrinali e di ingiuste misure disciplinari e, se non si fosse sufficientemente discolpato o ritrattato, procedere alla sua condanna. La delegazione passò per la Puglia e si incontrò con Argyros. Sbarcati a Costantinopoli i tre trovarono difficoltà nell’incontrarsi con il patriarca Cerulario, che considerò quella missione una manovra del proprio avversario Argyros; si lamentò pertanto che i tre legati non gli avevano reso l'omaggio della venerazione (la bizantina proskunesis), né si erano contentati di sedere dopo i metropoliti. Intento del patriarca: rifiutare il riconoscimento del loro grado e del loro ufficio di legati, per sottrarsi così al loro giudizio. Per lo stesso motivo rigettò la lettera di Leone IX, che gli avevano consegnata, con il pretesto che era una falsificazione preparata da Argyros. Inoltre proibì agli stessi legati di celebrare messa nelle chiese di Costantinopoli. A rendere più tesa la situazione, fu l'intervento di Niceta Stetatos, un vecchio monaco di Studios che, con uno scritto polemico, attaccò, oltre gli azzimi e il digiuno sabbatico, anche la legge del celibato dei latini. Subito confutato dal card. Umberto, quel testo fu fatto bruciare dall'imperatore. Forti del successo, i Legati vollero procedere anche contro Cerulario, il quale si ostinava a non riceverli. Il rifiuto da parte di Michele Cerulario di trattare con giudici che avevano autorità apostolica fu interpretato come pertinacia nell'errore. E sicuri del pieno consenso del papa -il quale però era già morto il 19 aprile- deposero sull'altare maggiore della chiesa di S. Sofia, dinanzi al clero e al popolo riuniti, mentre si recitava l'Ora di Terza, la bolla di scomunica contro il patriarca e i suoi seguaci (16 luglio 1054). I legati seguirono in ciò la prassi ed il rituale (Ordo excommunicationis) in uso in Occidente; indubbiamente però il gesto fu offensivo. Nel dispositivo della sentenza si legge che il Cerulario e i suoi seguaci erano stati condannati per una duplice motivazione di colpe: la prima, di ordine dottrinale; la seconda, di ordine disciplinare. Dieci gli errori denunciati -alcuni dal card. Umberto falsamente attribuiti al Cerulario- per lo più errori di altri tempi, come l'eresia dei Valesii che praticavano la castrazione; altri erano errori ed abusi reali, come il ribattezzare i latini ed il negare il valore del sacrificio eucaristico, celebrato con pane azimo; o il rifiuto della comunione ai sacerdoti latini, perché si radono la barba. Decisamente più concrete le accuse di ordine disciplinare: rifiuto di ricevere i legati che si presentavano come legati del papa e di trattare con loro argomenti per cui il pontefice li aveva inviati in legazione; la negata comunione ai latini che si tagliavano la barba e i capelli; la proibizione di celebrare messa, proibizione poi estessa agli stessi legati e la chiusura di tutte le chiese latine di Costantinopoli. Secondo i princìpi del diritto canonico quei fatti costituivano gravi infrazioni, colpe disciplinari meritevoli della pena canonica della scomunica e persino della deposizione. La scomunica, pronunciata dai tre legati, era circoscritta al Cerulario, a Leone di Ocrida e a Costantino il sacellario (tesoriere, qui latinorum sacrificium pofanis conculcavit pedibus: giunto a dichiarare non consacrata la santa ostia degli "azzimisti" l'aveva calpestata con i piedi). Mentre dalla scomunica si escludeva l'imperatore e la città di Costantinopoli, dichiarata "cristianissima e ortodossa". Ci si domanda se quella scomunica, lanciata dai legati il 16 luglio, era valida, essendo papa Leone IX morto il 19 aprile. Antonio Michel, il migliore studioso sull'argomento, dimostra che, già dal sec. XI, vigeva quel principio, sancito più tardi da una decretale di Niccolò II (1059-61), che cioè i poteri del legato non cessavano con la morte del pontefice delegante, per il motivo enunciato dalla corrispodente glossa: "legatus enim papae dicitur legatus Sedis apostolicae, sed Sedes ipsa non moritur". Più debole la prova dell'inefficienza del servizio postale dell'epoca per cui, a tre mesi dalla morte del papa, a Costantinopoli non sarebbe ancora giunta la notizia e ciò quando, nel sec. V, per recapitare una lettera da Roma a Costantinopoli bastavano due mesi. Di certo questa fu conosciuta da Michele Cerulario quando scrisse la prima lettera a Pietro patriarca di Antiochia.
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