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Innocenzo III (1198-1216)
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Sulla fine del secolo XII, mentre il papato stava attraversando un periodo critico, la potenza della casa Sveva era invece in ascesa. Federico I, sotto il quale l'Impero godeva in Europa potenza e autorità, nel 1184 fece fidanzare e, due anni dopo, sposare il proprio figlio Enrico VI, re di Germania dal 1169 e dal 1186 re d'Italia, con Costanza, figlia di Ruggero II, erede di Guglielmo II re di Napoli e di Sicilia. Tale unione, che ebbe il consenso di Lucio III (1181-85), diede in seguito origine a un grave conflitto con il papato, scoppiato sotto Celestino III (1191-98) il quale incoronò Enrico VI il 14 aprile 1191; ma, temendo per l'indipendenza della Santa Sede -in quanto il sovrano si accingeva a prendere possesso del regno normanno- intavolò trattative con gli avversari, concludendo, nel luglio 1192, a Gravina, un concordato con Tancredi di Lecce, fratellastro dell'imperatrice. La morte di Tancredi di Lecce e la peste sopraggiunta, impedirono il tentativo di conquista del regno normanno, permettendo a Enrico VI di prendere possesso della regione e, nel natale 1194, si fece incoronare re di Sicilia. I piani di Enrico VI prevedevano di estendere il dominio germanico sul Mediterraneo orientale fino alla Siria, con la conquista di Costantinopoli e di trasformare l'impero in una monarchia ereditaria degli Hohenstaufen. Ma la morte lo colse ad appena 32 anni a Messina (28 settembre 1197). Quando, il 27 novembre 1198, venne a morire l'imperatrice Costanza, vedova di Enrico VI, il papa divenne tutore dell'infante Federico II e supremo signore del regno di Sicilia. Era allora papa Innocenzo III (1198-1216), succeduto a Celestino III. Lotario di Segni, ad appena 38 anni divenuto papa col nome di Innocenzo III, si era formato a Roma, presso il monastero di S. Andrea al Celio; quindi era passato alla scuola teologica di Parigi, poi aveva studiato diritto a Bologna. Poco prima della sua elezione, si era distinto per la sua attività letteraria, avendo scritto due opere celebri nella dottrina dei successivi secoli medievali: il De miseria humanae conditionis, un trattato ascetico-morale sulla condizione dell'uomo e il De missarum mysteriis, un commento liturgico alla messa, con una trattazione sul sacramento dell'Eucarestia. Inoltre la sua partecipazione agli affari della Curia era stata assai attiva. Il momento politico era assai difficile in quanto, in Germania, c’era stata una doppia elezione. I fautori della casa degli Staufen, l'8 marzo 1198, elessero imperatore Filippo, fratello del defunto Enrico VI; altri principi, tra cui l'arcivescovo di Colonia che doveva consacrare il re di Germania, elessero il 9 giugno Ottone IV, figlio di Enrico duca di Baviera. Quest’ultimo ebbe l'appoggio dello zio Ricccardo cuor di Leone, re d'Inghilterra; Filippo di Svevia quello di Filippo Augusto, re di Francia. Innocenzo III, inizialmente, si mantenne neutrale. Quindi intervenne a favore di Ottone IV, esponendone le ragioni in un concistoro segreto del 1200. Il che suscitò la reazione dei principi tedeschi che accusarono il papa di aver usurpato il loro diritto di elettori. Quindi, nonostante il riconoscimento del papa, continuò la lotta tra i due pretendenti, trascinando la Germania nella guerra civile; finché, dopo l'uccisione di Filippo II (1208), il papa insistette presso i principi tedeschi e tutti si misero dalla parte di Ottone IV, il quale sposò la figlia del suo avversario Filippo. Ottone IV, prima di partire per Roma, per l'incoronazione imperiale, sottoscrisse un documento -dichiarazione di Spira, 22 marzo 1209- in cui riconosceva piena libertà alla Chiesa, nonché i suoi possessi territoriali. Giunto a Roma, fu incoronato il 4 ottobre 1209. Ma, all'epoca, già erano iniziate alcune divergenze tra Innocenzo III e Ottone IV, che si aggravarono nei mesi successivi. Il nuovo imperatore cominciò infatti ad occupare alcuni territori, tradizionalmente appartenuti al papa: nel 1210 invase il Patrimonio, quindi passò la frontiera del Regno di Sicilia ed avanzò verso il Sud, prendendo Capua, Napoli, Salerno. Innocenzo III reagì, scomunicando Ottone IV (18 novembre 1210); quindi appoggiò la candidatura all'impero di Federico II, il figlio di Enrico VI e di Costanza, di cui il pontefice era tutore e che si trovava in Sicilia. Federico II fu proclamato re dei Romani nella dieta di Norimberga, del settembre 1211; quindi, con l'aiuto del papa, si recò in Germania dove fu eletto imperatore il 5 dicembre 1212. Di nuovo fu guerra civile e la lotta dei due partiti nella battaglia di Bouvines, presso Lilla (27 luglio 1214), dove Ottone fu sconfitto, fu decisa a favore di Federico II. Dopo di che Federico II fu di nuovo incoronato ad Aquisgrana, nel luglio 1215. Sotto Innocenzo III il papato raggiunse l'apogeo della sua potenza politica e i sovrani d'Europa, a gara, facevano omaggio dei loro regni al vicario di Cristo. Il che ha spinto alcuni storici ad attribuire a Innocenzo III una Weltherrschaft. Tra i testi addotti, a riprova della loro tesi, figura la bolla del 24 febbraio 1204, con la quale Innocenzo III concesse la corona e il titolo regale a Calojanne, sovrano di Bulgaria e di Valacchia (PL 215, 277-280). La concessione era legittima e opportuna perché il re aveva chiesto insistentemente la corona al papa; e, da parte del pontefice, si trattava di ricondurre in seno alla Chiesa romana popolazioni che Costantinopoli aveva sottratto alla giuridizione del papa. Nell'arenga si dice che il Re dei re ha costituito il romano pontefice "super gentes et regna" e venendo ad enunciare le ragioni che inducono il papa a concedere la corona regia dice: "cum igitur licet immeriti eius vices geramus in terris qui dominatur in regno hominum et cui voluerit dabit illud, utpote per quem reges regnant et principes dominantur (...) regem te statuimus super eos". Sottolineando come questi atti di giurisdizione temporale avevano un fondamento teologico, Innocenzo III giustificava così quanto compiva nel temporale, in quanto estendeva al vicario di Cristo la prerogativa propria ed esclusiva di Gesù Cristo stesso, supremo Signore del mondo. Innocenzo III non identifica tuttavia la potestà regale di Cristo con quella del papa suo vicario. Scrivendo infatti, nel 1205, al vescovo di Fermo accenna, nell'arenga, alla regalità terrena di Cristo nei termini: "Licet pontificalis auctoritas et imperialis potestas diversae sint dignitates, et officia regni et sacerdotii sint distincta, quia tamen Romanus Pontifex illius agit vices in terris qui est rex regum et dominus dominantium sacerdos in aeternum secundum ordinem Melchisedech, non solum in spiritualibus habet summam, verum etiam in temporalibus magnam ab ipso Domino potestatem” (PL 215, 767). Oggetto è il dominio temporale della Santa Sede che gli è dato "ab ipso Domino" e scopo immediato di Innocenzo III è conferire le regalie temporali al vescovo marchigiano. Da qui la distinzione dei due poteri; distinzione che però non impedisce che il papa, perché vicario di Cristo, re e sacerdote, abbia "non solo un potere sommo nelle cose spirituali, ma anche uno grande in quelle temporali dal Signore nostro". L'autorità temporale del papa è detta grande, mentre somma è quella spirituale del papa, nonché la stessa autorità temporale di Cristo-re. A fondare la distinzione dei due poteri era stato papa Gelasio e lo aveva fatto nel Thomus de anathematis vinculo (ed. Thiel, 567s) dove si afferma che Gesù Cristo realizza in sé il tipo di Melchisedech, re e sacerdote e, come la sua antica figura, Gesù è rivestito di una dignità regale terrena e non solo spirituale". Questo passo fu poi inserito da Graziano nel suo Decretum. Il potere grande nel temporale, che Innocenzo III rivendica al papa, si riferisce allo Stato della Chiesa. Egli, subito dopo la sua elezione, aveva cercato di riconquistare i diritti perduti o minacciati. I domini temporali della Chiesa non formavano un vero Stato, erano diversi e slegati fra di loro; alcuni erano dominati da signori tedeschi, lasciati dall'imperatore Enrico VI; altri avevano proclamato l'autonomia comunale. Da qui i successivi interventi, in quanto Innocenzo III riteneva che il potere sui possedimenti della Chiesa venisse alla Santa Sede dal Signore stesso. E tuttavia distingue chiaramente i due poteri: chiama sommo quello spirituale, quindi universale; mentre il temporale lo dice grande e riguarda solo il Patrimonio di S. Pietro. Del resto che papa Innocenzo non ebbe mire imperialistiche lo si evince già dalla prima lettera inviata ai principi di Germania (PL 216, 998), in cui sottolinea il suo rispetto per i diritti dell'impero e il suo desiderio di collaborazione e unione; mentre, contestualmente, riferisce le parole della lettera di s. Pietro, cioè la discendenza del Signore da stirpe regale e sacerdotale e la sua doppia dignità sacerdotale e regale a fondamento della distinzione dei due poteri. Stessa la nozione che compare nell'arenga della lettera inviata a Giovanni d'Inghilterra il 4 novembre 1213: "il Re dei re e il Signore dei signori, Gesù Cristo, sacerdote in eterno secondo l'ordine di Melchisedech, ha stabilito in tal modo il regno e il sacerdozio nella Chiesa, come attestano nell'epistola Pietro e Mosé nella legge" (PL 216, 923-924). Il Redentore è dunque la causa della concordia dei due poteri. Dall'idea della concordia tra sacerdozio e regno, Innocenzo III passa a quella della preminenza del papa nella Chiesa. Chiaro il riferimeno al potere spirituale, tanto che la lettera così prosegue: “mosso dalla considerazione di tale autorità, re Giovanni ha stabilito di sottomettere i suoi regni anche temporalmente (temporaliter) a colui cui sapeva essere soggetti spiritualmente (spiritualiter). Per cui quelle provincie che una volta ebbero la Chiesa romana come propria maestra nelle cose spirituali (propriam in spiritualibus habuere magistram), ora la abbiano come speciale signora anche nelle temporali (in temporalibus dominam habeant specialem)”. Nel panegirico di s. Silvestro, fatto al popolo (PL 217, 481-83), parlando della dignità del Santo, Innocenzo III aveva ricordato la leggenda di s. Silvestro, la presunta donazione di Costantino, il particolare del diadema, rifiutato da Silvestro e sostituito dall'aurifrigio -che diverrà prima tiara quindi triregno- per poi passare a parlare della superiorità del sacerdozio sul regno, superiorità dedotta dall'uso liturgico della mitria in confronto della tiara, raramente portata dai pontefici, nei termini: "Romanus itaque pontifex in signum imperii utitur regno, et in signum pontificii utitur mitra; sed mitra semper utitur et ubicunque; regno vero, nec ubique, nec semper: quia pontificalis auctoritas et prior est et dignior et diffusior quam imperialis"(PL 481 D - 482 A). Siamo dunque lungi dalla Weltherrschaft che gli si attribuisce, anche se l'accenno a s. Silvestro, insignito della dignità imperiale da Costantino, viene a rappresentare l'esempio più compiuto del Vicario di Cristo che è re e sacerdote, designando così nella persona del papa l'unione dei due poteri a motivo della donazione di Costantino. Un altro accenno al potere terreno del papa si trova nel III Sermone per l'anniversario della incoronazione: quivi l'accento è posto sul potere spirituale: la mitra e la corona, cioè il copricapo papale fanno ricordare a Innocenzo III che egli è stato costituito vicario di Cristo che è sacerdote e re; tuttavia egli non afferma che il titolo di vicario porti con sé un diritto del papa sul regno, oltre che sul sacerdozio. Ma poiché la corona (poi tiara) è precisamente l'insegna data da Costantino a Silvestro, come segno della sua donazione, ne consegue che il pontefice intende come dote materiale della Chiesa romana i possessi ricevuti con la falsa donazione, i quali anche costituiscono il fondamento della regalità terrena del papa. Per chiarire meglio i rapporti che intercorrono tra Pietro e Cesare, Innocenzo ricorre ai simboli, che ebbero poi tanta fortuna, del sole (papato) e della luna (Impero) e delle due spade: ambedue spettanti, di diritto, al pontefice che usa però solo la spirituale, mentre l'uso della spada temporale è concesso all'imperatore come advocatus Ecclesiae. Al pontefice è riservata, di diritto, solo l'ingerenza nelle questioni spirituali; tuttavia, ratione et occasione peccati, cioé per quel supremo controllo su tutte le azioni umane rispetto alla morale e alla legge divina, che è nei suoi doveri, ha la potestà di intervenire in ogni questione anche temporale. Alla chiara distinzione tra autorità di Cristo e autorità del suo vicario, perverrano invece alcuni teologi della seconda metà del secolo XIII; mentre trarrano conclusioni ierocratiche altri autori, sempre del secolo XIII, come Giovanni di Dio che dà al papa ambedue i poteri perché tiene il luogo di Dio.
La crociata contro i catari
Sulla Chiesa incombeva il pericolo dell’eresia catara; i più minacciosi erano gli albigesi, i Catari della Francia meridionale, appoggiati com’erano dalla locale borghesia. Innocenzo III, nel suo primo anno di pontificato (1198), inviò dei cistercensi in qualità di legati; ottenne però scarsi risultati e quando, nel 1208, Pietro di Castelnau, cistercense, legato papale, fu assassinato il pontefice indisse allora, contro i catari, una crociata. Questa ebbe inizio sotto la direzione militare del conte Simone di Montfort ed ecclesiastica del legato papale e durò dal 1209 al 1229, quando si giunse alla pace di Parigi. All'epoca la Francia meridionale era stata ormai tutta devastata: l'eresia era stata infranta e tuttavia rimanevano alcuni focolai che però furono debellati non dalla lotta armata e dall'azione repressiva dell'inquisizione, bensì dalla predicazione itinerante dei francescani e dei domenicani, due Ordini mendicanti sorti proprio mentre il Concilio Lateranese IV (1215) proibiva la fondazione di nuovi Ordini.
La IV crociata, o dei baroni
Innocenzo III, sin dall'inizio del suo pontificato aveva anche ripreso l'idea della crociata per la quale, con bolla 'Graves orientalis' del 31 dicembre 1199, elaborò un piano di finanziamento sulla base di una tassa imposta a tutti gli ecclesiastici. A predicare la crociata e a mendicare questa tassa fu Folco di Neuilly, che era stato pievano di una parrocchia di campagna, il quale, in seguito, lanciò una spedizione che finì per annientarsi dulle coste della Spagna. La quarta crociata, detta dei Baroni, ufficiale intrapresa per liberare il Santo Sepolcro, trattò con i Veneziani e terminò nel saccheggio di Costantinopoli. I Crociati si raccolsero a Venezia nel 1202 e per pagare il nolo, all'insaputa del pontefice, si accordarono promettendo ai Veneziani l'aiuto nella conquista di Zara che apparteneva al re d'Ungheria. Quindi, su consiglio di Enrico Dandolo, doge di Venezia, di nuovo si unirono ai Veneziani per cacciare da Costantinopoli Alessio III, che aveva usurpato il trono di Isacco l'Angelo e, il 17 luglio 1203, rimisero sul trono Isacco. Questi si era impegnato a dare una somma di denaro, a riconciliare la Chiesa greca con la Chiesa romana, nonché a partire egli stesso per la crociata. Ma le promesse non potevano essere mantenute, anzi la popolazione si rivoltò contro lo stesso imperatore. A questo punto i crociati di nuovo assediarono la città e, dopo averla saccheggiata, nominarono imperatore Baldovino, conte di Fiandra. Bonifacio di Monferrato, capo della crociata, divenne re di Tessalonica occupando la Macedonia e la Tessaglia, mentre i Veneziani si presero molte isole e tutto il versante greco del mare Jonio. Sorse così l'Impero latino d'Oriente, con un patriarcato latino (1204). Finì in questa maniera la IV Crociata che Innocenzo III aveva approvato, convinto che producesse l'unione della Chiesa e fosse valido aiuto per la conquista della Terra Santa. Così dopo la spinta ideale religiosa, sorta in un'Europa uscita rinnovata dal movimento riformatore e dalla lotta per le investiture, erano prevalsi gli interessi politici ed economici. E solo quest'ultimi vinsero: continuò infatti l'occupazione economica da parte delle città marinare che scambiavano i prodotti orientali con i prodotti e il denaro d'Europa. Continuò anche l'occupazione politica dell'Oriente da parte dei Latini -dal 1204 al 1261- e lo stesso Bisanzio finì sotto la sovranità di un impero latino d'Oriente con la conseguenza che questa latinizzazione, imposta dagli Occidentali, finì per approfondire l'ostilità dei Greci verso gli Occidentali. Innocenzo III, che morì nel 1216, non poté vedere la V crociata, che tuttavia preparò, nel 1215, affidandone la predicazione a Roberto di Courçon, legato della Santa Sede: è la crociata di Giovanni di Brienne, iniziata nel 1219 e che non andò oltre la conquista di Damietta. In precedenza v'era stato un moto, che si riallaccia alle crociate popolari, le cosiddette crociate di bambini. Nel giugno 1213 un giovane pastore di Vendôme, di nome Stefano, credette di essere stato designato da Dio a condurre i cristiani in Palestina. Riuscì a reclutare un migliaio di bambini che salparono da Marsiglia, ammassati in galere, due delle quali fecero naufragio e le altre rifornirono di schiavi Alessandria e la costa africana. Contemporaneamente un bambino tedesco, di nome Nicola, annunciò di voler creare il regno della pace in Palestina e ventimila fanciulli, ai suoi ordini, si diressero verso Brindisi. Molti morirono di fame e di stanchezza; pochi fecero ritorno al loro paese.
Il concilio lateranense IV
La maggior opera di Innocenzo III, fu indubbiamente il concilio Lateranense IV. Duplice lo scopo che il pontefice si era prefisso, convocando questo concilio: la riforma della Chiesa, intesa come rinnovamento dei costumi del popolo e del clero e la crociata, quale impresa del populus christianus, rappresentato dal concilio stesso. Aperto l'11 novembre 1215, alla presenza di 412 vescovi e più di 800 abati e priori, si tennero tre sessioni -l'ultima il 30 novembre- nelle quali furono promulgate 71 costituzioni. Le prime tre costituzioni sono dottrinali: si inizia con una una professione di fede; la seconda costituzione condanna un opuscolo di Gioacchino da Fiore che aveva attaccato la dottrina trinitaria di Pietro Lombardo e inoltre gli errori di Amauri di Chartres, eretico panteista ed apocalittico, messo al rogo a Parigi nel 1210. La terza, tratta della repressione delle eresie, stabilendo le pene da applicare agli eretici e ai loro favoreggiatori e il modo di ricercarli. Seguono canoni disciplinari riguardanti l'organizzazione ecclesiastica. Importante la costituzione 6, che stabilisce la periodicità annuale dei concili provinciali e dei sinodi diocesani. Questa costituzione -come ha osservato Michele Maccarrone- si situa "in una organica concezione della struttura sinodale della Chiesa, in tre gradi connessi e dipendenti: concilio generale, concilio provinciale annuale e sinodo diocesana, o episcopale, anch'essa annuale". Questa triplice struttura sinodale, propria della prassi e della normativa della chiesa antica (Decretum, Magistri Gratiani, Dist. XVII e XVIII col. 50-58), nel secolo XV sarà ribadita e precisata con grande chiarezza, sia pure nella visione conciliarista affermatasi a Costanza, dal concilio di Basilea, che ne trattò ampiamente nella XV sessione, del 26 novembre 1433. Non sappiamo però se la perentoria norma della costituzione 6 del concilio lateranense IV che, sotto pena di sospensione dall'ufficio, imponeva ai vescovi metropolitani e ai vescovi diocesani rispettivamente la celebrazione annuale dei concili provinciali e delle sinodi episcopali, sia stata sempre e dovunque regolarmente osservata. Certo è che, sia in Italia che negli altri paesi dell'Europa, si assistette, nei secoli XIII e XIV, ad una fioritura di questa antica istituzione, che va attribuita -come osserva il Maccarrone- "al benefico influsso della cost. 6 del IV Lateranense". La novità rivoluzionaria, introdotta da questo concilio, è la pastorale sacramentale. Nella cost. 27, mutuando da Gregorio Magno l'espressione ars artium, da lui coniata per un regimen animarum, il concilio "comanda fermamente ai vescovi di istruire diligentemente quelli che devono essere promossi al sacerdozio e di insegnare loro direttamente, o per mezzo di persone capaci, quanto attiene alla valida celebrazione dei divini uffici e all'amministrazione dei sacramenti", e conclude che "è preferibile avere pochi e buoni ministri che molti e cattivi". Fa il paio, con questa, la costituzione 11, che tocca il problema dell'istruzione del clero, disponendo, in ogni chiesa cattedrale, l'istituzione di un maestro per gli ecclesiastici e, in quelle arcivescovili, l'istituzione di un teologo che insegni teologia. Tuttavia, per la formazione del clero delle campagne, fino oltre il concilio di Trento, rimase in vigore l'apprendistato presso le pievi; mentre per un programma di riqualificazione continua del patrimonio specifico di conoscenze del clero, con cura d'anime, si utilizzò il sinodo locale. Concernono la cura animarum le costituzioni 9 e 21. La prima prescrive il rispetto della lingua e del rito dei fedeli nelle regioni a popolazione mista. La costituzione 21, Omnis utriusque sexus, introduce l'obbligo della confessione annuale e della comunione a pasqua, legandolo però al controllo del proprius sacerdos. In seguito la legislazione sinodale stabilirà che il sacerdote in cura di anime dovrà trasmettere al vescovo la lista dei non adempienti e si baserà su quel rapporto annuale per il censimento dei suoi parrocchiani. La cost. 62 raccomanda di non ammettere religiosi e predicatori non approvati; e la 66 proibisce le tasse per funerali e matrimoni, ma ammette l'offerta. Questo concilio affronta così temi fondamentali dell'apostolato sacerdotale, come la predicazione dei sacerdoti in cura d'anime, l'istruzione religiosa del popolo e l'esercizio della carità. Di lì a qualche anno per questi compiti di base della pastorale, in particolare per la predicazione e la confessione, specie in Italia, si verificherà però una supplenza da parte degli ordini mendicanti, identificati già da Gregorio IX con i "viri idonei", "coadiutores et cooperatores" cioè i supplenti dei vescovi per l'ufficio previsto dal Lateranense IV con il can. 10: il "De predicatoribus instituendis", che raccomanda appunto l'istituzione, in ogni diocesi, di gruppi di sacerdoti secolari, viventi in comune, alle dirette dipendenze del vescovo e dediti alla predicazione e al ministero spirituale nelle chiese. La cost. 12 regola la vita monastica benedettina stabilendo, sul modello cistercense, capitoli generali triennali al fine di raccogliere tutti gli abati di una provincia o di un regno. La stessa misura fu poi applicata ai Canonici Regolari, che però, dopo la fioritura del sec. XII, erano in declino. Negli altri ordini religiosi, Cistercensi, Premostratensi, Giovanniti, Templari ecc. lo stesso Innocenzo III aveva favorito la loro disciplina, accentuando la vigilanza e l'intervento della Santa Sede. La cost. 13 è divisa in due parti: la prima proibisce la fondazione di nuove comunità religiose "Ne nimia religionum diversitas ... quicunque voluerit ad religionem converti, unam de approbatis assumat". La seconda, estende alla Chiesa universale alcune proibizioni emanate dal concilio di Parigi del 1212: ai monaci si proibiva di cambiar sede e agli abati di stare a capo di più monasteri, proibizioni che del resto rispondevano al rigido principio della Regola di s. Benedetto che imponeva la stabilitas in congregatione. Più importante la prima parte, che riguarda la fondazione di nuovi ordini. Il pontefice, che nel 1210 aveva oralmente approvato la regola di s. Francesco, volle porre un limite alle richieste di approvazione (firmiter proibemus), indirizzando le nuove fondazioni religiose nelle regole già esistenti (di s. Benedetto e s. Agostino -che ormai dominavano la vita religiosa regolare dell'occidente- e di s. Basilio, osservata nei monasteri di lingua e di rito greco), lasciando però ad ognuno la libertà di vita e di organizzazione (le institutiones, cioè le forme di vita -sia monastica che canonicale- che costituivano una specificazione, rispetto alla regola). La costituzione lasciava piena libertà alle nuove fondazioni di darsi propri ordinamenti (consuetudines, observantiae, statuta, proposita), ma vietava nuove religioni che godevano privilegi ed esenzioni e una propria e riconosciuta disciplina. E ciò perché la "religionum diversitas" causava una grande confusione nella Chiesa e pertanto era motivo di scandalo. Tra gli altri canoni del Lateranense IV, va segnalato quello che proibisce l'usura agli ebrei ai quali, per di più, il concilio impone uno speciale distintivo e l'isolamento dai cristiani. Quanto ai rapporti tra S. Sede ed episcopato, altro capitolo della riforma della Chiesa, con Innocenzo III si intensificano ed aumentano gli interventi sui vescovi a proposito di elezioni, traslazioni e deposizioni. Metropoliti e gli arcivescovi, eletti canonicamente dai loro suffraganei, dovettero piegarsi a richiedere il pallium a Roma per esercitare la loro autorità. Innocenzo III tuttavia adottò la politica di dare maggiore poteri ai vescovi sia con le delegazioni permanenti (delegati a jure), sia affidando loro incarichi di riforma e di giudici (giudici delegati). Avendo un'idea piuttosto astratta dei mali della Chiesa del suo tempo, Innocenzo III era convinto di porvi rimedio semplicemente applicando i canoni conciliari di riforma. Il Concilio lateranense IV è indubbiamente una tappa essenziale di quel generale processo di riorganizzazione pastorale, caratterizzsato da una linea di attenzione verso le esigenze religiose di fondo del popolo cristiano, quali si erano venute prospettando in conseguenza degli esiti della riforma gregoriana e dei nuovi sviluppi della società. Erano tuttavia diminuiti i grandi mali del concubinato e della simonia; mentre ciò che mancava, e neppure Innocenzo III riuscì a dare, era un piano organico di riforma dell'organizzazione diocesana che permettesse al vescovo di controllare e di dirigere la vita religiosa del clero e dei fedeli, facendone il vero capo della diocesi. Si sviluppa invece la tendenza opposta: ogni organismo ecclesiastico rivendica una propria autonomia: così il capitolo cattedrale, l'arcidiacono, i monasteri esenti, gli stessi ordini mendicanti. |