Gregorio VII (1073-1085)

 

STORIA DELLA CHIESA

I PONTEFICI

          

                Morto Alessandro II (+ 1073), fu eletto papa l'arcidiacono Ildebrando (di Soana, oggi Sovana, nella Tuscia romana) che prese il nome di Gregorio VII. Fu una elezione popolare secondo la forma antica e non fu seguita la proce­dura richiesta dal decreto del 1059: mancò la tractatio dei cardinali ve­scovi, per la quale venivano loro riservati tre giorni di tempo. A elezione avvenuta nessuno tuttavia ne mise in dubbio la legittimità.

 

I difficili rapporti con la Germania

 

                 Fonte principale per la storia del pontificato di Gregorio VII (1073-85)  è il registro della cancelleria  (Reg. Vat. 2), dove sono com­prese, in 9 libri, le lettere dettatte dal papa o redatte per suo ordine, registro autentico, ma a torto ritenuto anche originale.

                Ildebrando, in­sieme a s. Pier Damiano, il consigliere più ascoltato di Alessandro II, era stato edu­cato nel pa­triarchio lateranense e poi nel monastero di S. Maria sul­l'Aventino, collegato a Cluny e dove soggiornò lo stesso Odilone. Gregorio VI (al secolo Giovanni Graziano, che era stato arciprete a S. Giovanni di Porta latina) lo aveva poi preso come cappellano. Fu al seguito del papa, prigioniero di Enrico III, che Gregorio maturò la sua vocazione monastica, facendo la professione forse a Cluny. Ritornato a Roma, Leone IX (1049) lo nominò suddiacono, eco­nomo del monastero di S. Paolo e custode dell'altare di s. Pietro. Sotto Alessandro II di­venne la persona più influente della Chiesa Romana.

                Al momento dell'elezione  di Gregorio VII, il re di Germania Enrico IV non era in buoni rapporti con la Santa Sede poichè aveva conti­nuato a co­municare con i suoi consiglieri che erano stati scomuni­cati (1073)  da Alessandro II per la loro perniciosa influenza sul giovane re Enrico IV.

                Gregorio VII annunciò molto proba­bilmente la sua elezione alla corte germanica e ne ottenne con­ferma; quindi inviò in Germania dei legati che diedero l'assolu­zione  a re Enrico IV, il quale si era ricono­sciuto colpevole di simo­nia e parimenti aveva promesso di se­pararsi dai consiglieri sco­municati.

 

 

Sinodi riformatori

 

                Fedele alla consuetudine,  restaurata da Leone IX, Gregorio VII ce­lebrò ogni anno, in quaresima, un concilio di riforma.

                Nei sinodi tenuti nel marzo 1074 e nel febbraio 1075 si rinnovarono i decreti di Leone IX e di Niccolò II contro l'eresia nicolaita e simoniaca che minac­ciava la disciplina cattolica, emanando se­vere pene discipli­nari contro i vescovi non obbedienti, fra questi Ermanno di Bamberga, il più noto ve­scovo simoniaco di Germania il quale, de­posto nel 1075, fu rinchiuso in un convento. Nel sinodo romano del 1079 fu trattata invece un'e­resia che minacciava l'ortodossia della chiesa, quella di Berengario di Tours, un teologo che riteneva l'eucarestia figura di Cristo, una teoria in contra­sto con quella  della Chiesa.

                Nel sopra ricordato sinodo, del 1075, fu ema­nato anche un decreto che, oltre alla simonia e al matrimonio degli ec­clesiastici,  proibiva l'investi­tura laica,  sviluppando la for­mula già pre­sente nel sinodo latera­nense del 1059: il decreto riguardava il conferi­mento dei vescovadi e delle abbazie da parte del sovrano e rigettava lo stesso "consen­sus regis". Intenzione di Gregorio VII era quella di ristabilire la tradi­zione più antica e genuina, cioè quei principi di diritto canonico la cui restaurazione costituì uno dei punti fondametali del suo pro­gramma di pontefice e che egli stesso formulò nel Dictatus papae, un documento che si trova nel secondo Libro del Registro.

                 I 'dictatus' sono i titoli (capitula) di una collezione canonica, composti dallo stesso pontefice -e non del card. Deusdedit o di qualche altro ecclesiastico, come in passato alcuni hanno ritenuto- collezione che doveva raccogliere testi della Scrittura, dei Padri, dei canoni conci­liari e delle Decretali (mutuate queste anche dalle false decretali) sull'autorità del papa: un trattato teologico-ca­nonico, appena enunciato, sul primato papale.

                Non ci sono novità nel contenuto, ma la loro formulazione rappre­senta una vigorosa riaffer­mazione delle prerogative della Sede Apostolica, rivendicate da Gregorio VII nella sua azione di ponte­fice.

                Scritto poco prima del si­nodo del 1075, il dictatus, con­cepito come filo conduttore di una compilazione canonistica, si sviluppa in 27 brevi proposizioni. Alcune proposizioni riguardano la Chiesa greca che, nel 1054, era caduta nello sci­sma per colpa del patriarca di Costantinopoli (dictatus 1-4, 10, 16, 22, 26); altre, il rapporto tra Regnum e Sacerdotium: la Chiesa per i ri­forma­tori è un organi­smo a sé stante, soprannaturale e distinto da qualsiasi istituzione terrena.

                Papa Gregorio, appena eletto,  aveva pro­clamato in modo esplicito che il potere, conferito a Pietro e da lui tra­smesso ai suc­cessori, è di origine divina, af­fermazione che egli ripete all'inizio del dictatus: la Chiesa romana è stata fondata soltanto dal Signore. Con ciò vuol dire che Cristo ha fondato la Chiesa su Pietro cui ha concesso il potere di legare e di sciogliere, potere passato ai suoi successori  'sino alla fine del mondo'. Da qui la superiorità del succes­sore di s. Pietro su gli al­tri discepoli e, di conse­guenza, fra i loro suc­cessori. E poiché  Cristo ha promesso a Pietro l'assistenza divina, af­ferma il dictatus 22 che la Chiesa romana non ha mai er­rato e non po­trà mai errare. Da questa proposizione deriva che il pontefice romano è l'unico giu­dice che non possa essere giudicato da nessuno e le cui sen­tenze sono insindaca­bili (dictatus 18-21). Ne consegue che il papa esercita sulla Chiesa e sulla cristia­nità laica un potere assoluto e univer­sale, idea che sovente ri­corre nella corri­spondenza di Gregorio VII.

                Il papa, custode dell'organizzazione eclesiastica, ha il potere di cambiare le istituzioni  (può creare dio­cesi, come crede; modificare le cir­coscri­zioni esistenti,  dictatus 7) e ha ogni potere sulle persone (può ordinare, tra­sferire o deporre di propria autorità i prelati dictatus 13, 14, 15 25). Senza il suo potere i vescovi non possono prendere decisioni di carat­tere ge­ne­rale (dictatus 16) e il legato pontificio, ovunque si trovi ha il primo posto (dictatus 4).

                Già il card. Umberto, nell'Adversus simonia­cos,  aveva enunciato la tesi della superiorità della Chiesa sull'Impero. Papa Ildebrando sembra tuttavia di­staccarsi dalla concezione caro­lin­gico-ot­toniana  di un regno di Dio universale, in cui Regnum e Sacerdotium agiscono con funzioni di un unico organismo: egli consi­de­ra ogni attività umana subordinata al suo rapporto verso la Chiesa; evi­denzia nel Regnum più la funzione di "minister ecclesiae", che gli aspetti più autonomi della realtà statale.

                Da qui gli arti­coli del dictatus che rivendicano la supe­riorità del potere spiri­tuale su quello tem­porale, come il dictatus 8 (solo il papa può usare le insegne imperiali);  il dicta­tus 9 (il papa è l'unica persona a cui tutti i principi baciano i piedi). Da questa conce­zione spiritua­listica procedono poi certe espressioni negative, circa l'origine  e la na­tura del potere statale.

                L’attribuzione al papa del po­tere di deporre l'imperatore, come esplicita­zione  del potere di le­gare e di sciogliere  (dictatus 12), è un'affermazione estrapolata dalla supposta donazione di Costantino. Mentre, con il dictatus 27, il papa riven­dica il potere di sciogliere i sudditi dal giuramento di fedeltà, fatto agli indegni: una disposizione che riguarda tanto i sovani, quanto i pre­lati.

                Al tempo di Gregorio il papato esercitava un'autorità tempo­rale sulle pro­prietà della stessa Santa Sede (campagna romana, Marca di Fermo, ducati di Spoleto e di Benevento, Campania, Corsica e Sardegna), mentre si riconoscevano vassalli del papa i principi nor­manni Roberto il Guiscardo e Riccardo di Capua e, an­che fuori d'Italia, parecchi Stati cristiani di Occidente si dichiara­rono spontane­amente vassalli della santa Sede (Aragona, Ungheria, Croazia-Dalmazia).

                Il pontefice non aveva tuttavia  mire politiche; egli si sentiva invece responsabile davanti a Dio della salvezza dei re, come di quella dei vescovi, del clero e dei fedeli, per cui si sentiva in dovere di controllare il loro operato unicamente per un motivo so­prannaturale, ratione peccati. Un'idea, questa, già presente in Gelasio I (492-496) che, nella lettera al basileus  Anastasio I (491-518),  scritta nel 494, traccia l'autonomia e il coordinamento tra Impero e Chiesa distinguendo le due potestà, ma anche indi­cando come mo­tivo della subordinazione  dell'Impero alla Chiesa il fatto che i pon­tefici, pre­sentandosi davanti a Dio, "dovranno rendere conto anche per i re".

                Stante il carat­tere eccessivo dell'art. 23, col quale Gregorio VII dichiara indistintamente santi tutti i papi canonicamente ordinati, cosa che la Chiesa non ha mai ammesso, è stata avanzata  an­che l'ipotesi che i Dictatus costituissero lo schema di una allocu­zione pontificia, da farsi al concilio romano del 1075, ma che il papa non avrebbe più pronunciato, accontentandosi di in­terdire l'investitura laica. Rinunciare però a questa, specie in Germania, avrebbe significato privarsi di una delle forze materiali che la corona riusciva a conservare.

                Scopo della dottrina di Gregorio VII: limitare il potere regio, sot­tomet­tendolo al controllo dell'autorità  ecclesiastica, onde prevenire l'arbitrio dei sovrani, ricor­dando loro i diritti di Dio che il successore di Pietro ha il privilegio di difendere e di esercitare.

                Va tuttavia precisato che, all'e­poca,  mancava la coscienza di una realtà statale, au­tonoma di fronte alla Chiesa, per cui si continuerà ancora a lungo a concepire il Regnum come parte inte­grale della Chiesa e solo molto più tardi maturerà la co­scienza delle basi naturali dello Stato, indipendenti da quelle religiose. Su que­ste premesse -pro­gramma di governo della Chiesa e della cristianità- si basa la preva­lenza della Chiesa nel mondo politico d'Occidente,  formu­lata teori­camente e appli­cata per la prima volta dallo stesso Gregorio VII, quindi riaffermata da altri pontefici, in particolare da Innocenzo III (1198-1216) e da Bonifacio VIII (1294-1303).

 

Conflitto per le investiture

 

                A provocare l'intervento di Gregorio era stato l'impero ger­manico, dove regnava Enrico IV (1056-1106),  dichiarato maggio­renne nel 1065, a quindici anni; un re che inizialmente  si era mo­strato favorevole ai piani di riforma del papa, forse perché in diffi­coltà per la sollevazione dei Sassoni (1073-1074).  Sottomessi però i Sassoni (giugno 1075), non volle più saperne delle precedenti con­cessioni e, senza piegarsi al di­vieto delle investiture, provvide a nominare i titolari di parecchi vesco­vadi italiani, fra cui quello di Milano, la cui sede, per di più, non era va­cante. Vi nominò il dia­cono Tebaldo, facendolo subito consacrare.

                Enrico, che aveva dalla sua parte l'episcopato della Germania e dell'Ita­lia  settentrionale  e che contava nell'aristocrazia romana, capeggiata da Cencio, decise allora di scate­nare la guerra contro Gregorio, convo­cando a Worms, per il 24 gennaio 1076, un concilio di vescovi -vi inter­ve­nero 26 vescovi su 38- e di prin­cipi tedeschi. Sotto l'influenza di Enrico il sinodo dichiarò che Gregorio VII non era papa legittimo e gli ri­fiutò l'obbedienza. Fu inviata una lettera del concilio al papa, dove lo si accusava di essere un invasor, un usurpatore della Sede Apostolica.

                A provocare la rivolta del re e dei vescovi erano stati i 'Dictatus papae' rite­nuti dai vescovi un pro­gramma di accentra­mento ecclesiastico, una menomazione delle loro prerogative tra­dizionali; dal sovrano e dai principi, un'ingerenza pontificia circa il potere tem­porale.

                Lo stesso Enrico, poi, diffuse un manifesto pole­mico, di­retto a Ildebrando -non papa ma 'falso monaco'- in cui, in veste di patrizio ro­mano, ordinava a Gregorio di scendere dalla cattedra apostolica usurpata. L'accusava, in­fatti, di aver disprez­zato l'ordine  stabilito da Dio, rivendicando a sé, contro la volontà di Dio, il regno e il sacerdozio e di essersi eretto con­tro il potere regio. Enrico ri­vendica la separazione dei due poteri, per cui non viene ricono­sciuta valida una deposizione del re fatta dal papa; ma poiché il re è di diritto di­vino ed é Patrizio dei romani, gli sembra legittima e in certi casi necessaria la de­posizione del papa, fatta dal re. Così, la separazione dei due poteri vale solo per il re sul papa: il vec­chio cesaropapismo imperiale torna a rivendicare le sue anti­che prero­gative.

                Un sinodo di vescovi lombardi, radunati a Piacenza, approvava quell'ope­rato e in­viava il chierico Rolando,  a Roma, per notificare i de­creti di Worms. Il papa, che nel frattempo aveva riunito in Laterano il preannunciato sinodo (14-22 febbraio 1076), rispose alla deposizione e alla negazione di obbedienza da parte dei sinodi di Worms e di Piacenza con identiche misure. In particolare lanciò nei confronti di Enrico IV la scomunica in forma di solenne preghiera al Principe degli Apostoli Pietro:

                "Beato Pietro, principe degli apostoli, ve ne supplico, porgetemi bene­volo orec­chio. Ascoltate il vostro servo che avete nutrito sin dal­l'infanzia che sino a quest'oggi avete sottratto dalle mani degli empi che lo hanno odiato e lo odiano ancora per la fedeltà verso di voi (...) col vostro potere e colla vostra autorità interdico al re Enrico, che con orgoglio insensato si è eretto contro la Chiesa, di governare il re­gno di Germania e d'Italia e prosciolgo tutti i cri­stiani dal giura­mento presta­togli e proibisco a chiunque di riconoscerlo re".

                 Il concilio di Worms, che aveva deposto il papa (1076), era stato un grosso errore, di cui Enrico IV si era servito per attribuire a sé quella superiorità che la tradizione riconosceva come prero­gativa del papa; mentre la deposizione  del re, fatta nello stesso anno dal papa, fu l'inizio di una guerra infelice, e ciò, nonostante che Gregorio si fosse mostrato disposto ad assolvere Enrico IV il giorno in cui egli avesse chiesto per­dono e avesse fatto la relativa penitenza (Reg. IV, 3).

                Dalla parte del papa si schierarono la mar­chesa Matilde di Toscana, il movimento dei patari di Milano e, a partire dal 1080, i Normanni dell'Italia meridio­nale. Mentre in Germania i principi laici ostili al dispotismo di Enrico IV e i vescovi, presenti a Worms, si resero ben presto conto della gravità dell'atto da loro compiuto.

 

Canossa

 

                Tre gli atti che Gregorio VII compì contro Enrico: la sospen­sione dal regno di Germania e d'Italia, lo scioglimento dei sudditi dal giura­mento di fedeltà e la scomunica.

                Enrico IV, preoccupato della propria sorte, dopo laboriose trattative con i principi laici, radunati prima a Ulma e poi a Tribur (ottobre 1076), i quali vole­vano procedere all'ele­zione di un nuovo re, cedette. Tra Enrico IV, i principi e il legato papale Cadalo si decise così di invitare Gregorio VII a venire in Germania, per presiedere una dieta del re­gno da tenersi ad Augusta il 2 febbraio 1077.

                Questa è la grande vittoria del papa su Enrico IV, il quale fu costretto a rila­sciare una promissio di obbedienza, che il legato doveva portare a Roma.

                Il piano di Enrico era però di farsi assolvere dal papa prima della progettata dieta: per questo segretamente, per sfuggire al controllo dei principi, scese dalla Germania in Italia per incontrarsi con Gregorio VII che, nel frattempo, aveva la­sciato Roma ed era giunto vicino alle Alpi, in attesa che una scorta lo conducesse in Germania. Saputo dell'arrivo inaspettato del re, il papa si rifugiò nel castello di Canossa -a SE di Reggio E.- sotto la protezione della contessa Matilde.

                Là si recò Enrico IV il 25 gennaio 1077, con una piccola scorta ad implorare dal papa l'asso­luzione nelle forme ca­noniche. Il papa, dimostrando la sua gran­dezza morale e re­ligiosa dopo che Enrico, per tre volte in altrettanti giorni, aveva bussato alla porta del castello, come un penitente, scalzo e vestito di saio (Reg. IV, 12), lo assolse dalla scomunica, rimandando la questione del regno alla dieta tedesca. Tuttavia Enrico si servì del suo gesto clamoroso per rinviare il viaggio del papa in Germania, con la pre­vedibile deposizione da parte dei principi.

                 A differenza di Worms, Canossa segna la vittoria politica di Enrico sopra Gregorio VII. La tregua servì infatti ad Enrico per raf­forzare il partito antipapale dell'Italia settentrionale, dove si fece incoronare re d'Italia.

                Da parte loro, i principi tedeschi, scontenti dell'assoluzione dalla scomunica, si radunarono a Forchheim (13 marzo 1077), dove ri­gettarono Enrico ed elessero re il suo cognato Rodolfo di Rheinfelden, duca di Svevia. Questi, promise subito ob­bedienza al papa e la con­ces­sione delle elezioni canoniche, ma Gregorio non prese posizione a fa­vore del nuovo re.

 

Gregorio VII muore in esilio

 

                Scoppiò allora una guerra civile e Gregorio si offrì come arbitro, ma le parti pre­ferirono sottrarsi al suo giudizio.

                Enrico, riacquistata potenza po­litica, chiese a Gregorio, con la minaccia di eleggere un antipapa, il riconoscimento per sé e la scomunica per Rodolfo. Gregorio, uscì allora dalla neutralità, sino allora mantenuta e nel concilio romano del 7 marzo 1080, dopo aver ripetuta la proibi­zione della investi­tura laica, compresi i benefici minori e fissata la pro­cedura per le elezioni episcopali, solennemente scomunicò Enrico IV, lo depose dal regno e ri­conobbe, come re di Germania, Rodolfo.

                 Ma la situazione politica del 1080 era ben diversa da quella del 1076 ed Enrico pote' influire  sull'episcopato. Convocò così un'assem­blea di vescovi tede­schi e italiani  a Bressanone dove, il 25 giugno 1080, fece di nuovo dichiarare de­posto Gregorio e fece eleggere antipapa, col nome di Clemente III, l'arcivescovo Guiberto di Ravenna.

                Il grave gesto fu motivato asserendo che Gregorio era un invasor della Sede Apostolica ed era incorso nell'eresia,  caso contemplato dalla tradizione canonica e che escludeva dal papato.

                La situazione si sviluppò a favore di Enrico IV, poiché nella battaglia di Hohenmölsen sull'Elster, da lui vinta, morì l'anti-re  Rodolfo (5 ottobre 1080). Gli si trovò un suc­cessore insignificante nella persona del conte Ermanno di Luxemburg.

                Enrico, scompaginatasi l'opposizione di Germania, decise allora di tra­spor­tare il teatro del combattimento in Italia: scese nella primavera del 1081 e assediò Roma, ma solo nell'estate del 1083, in una terza campa­gna, riuscì ad entrare nella Città Leonina con il suo antipapa. Intronizzato in S. Pietro Clemente III, la dome­nica delle palme, Enrico ri­cevette da lui, il giorno di pasqua (31 marzo),  la corona imperiale.

                 Gregorio VII tuttavia continuava a resistere in Castel S. Angelo, da dove invocò l'aiuto dei Normanni. Questi vennero a Roma, guidati da Roberto il Guiscardo e costrinsero Enrico e l'anti­papa a ritirarsi verso Nord.

                La città fu al­lora liberata e Gregorio, ri­portato in Laterano. Ma il saccheggio e le devastazioni compiute dai Normanni avevano inasprito i Romani anche contro Gregorio VII per cui il papa dovette lasciare Roma al seguito del Guiscardo e si ritirò a Salerno, dove morì il 25 maggio del­l'anno successivo (1085), pronunciando le parole riferi­teci da Paolo di Benried: "Semper dilexi iustitiam et odio habui iniquitatem" (cfr. Ps 44, 8), parole veramente pronunciate perché confermate da altre fonti (non però l'aggiunta "propterea morior in exilio" che risulta poste­riore). Ne ap­profittò l'antipapa Clemente III che ritornò a Roma e vi celebrò la festa del natale, mentre Enrico, andò in Germania e si mise a com­battere l'anti-re Ermanno di Lussemburg.

                Gregorio VII, strenuo difensore della Chiesa, elevato da Paolo V nel 1606 agli onori degli altari, ebbe il merito di valorizzare le vecchie strutture ecclesiasti­che  e di crearne di nuove; tale l'invio di legati pa­pali per presiedere, “vice sedis apostolicae”, i sinodi, or­gano tradizionale dell'episcopato, valorizzato dalla riforma del se­colo XI.

                L'azione dei la­gati e dei papi si svolgeva principalmente  at­traverso la corrispodenza: da qui la necessità di creare rapporti frequenti e diretti fra Roma e l'e­piscopato. I legami con Roma ven­nero estesi alla postulazione del pallio e alla visita ad limina. Non si trattò tuttavia di una centralizzazione, cioè di un tentativo di as­sorbire i poteri dei vescovi e delle chiese locali a vantaggio della Sede Apostolica; si creò invece un rapporto di scam­bio tra primato papale ed episco­pato, la cui migliore espressione è l'epi­stolario  dello stesso pontefice, rispettoso dell'autorità  episcopale e de­side­roso di avere la collaborazione dei vescovi e non la loro subordi­nazione.

                La riforma del secolo XI ebbe, come ulteriori aspetti, nuovi rapporti tra il vescovo e il suo clero, stimolato a liberarsi dalle impli­cazioni feudali in cui era ca­duto e a ritrovare la propria dignità eccle­siastica. Non meno importante l'ufficio  e la posizione riconoscita ai christifideles in seno alla Chiesa. Ad essi Gregorio si appellò sia per rendere più efficaci i decreti di riforma del clero, sia per avere il loro aiuto per un soccorso all'orientalis Ecclesia minacciata dagli infedeli. Gregorio VII fu infatti il primo a conce­pire l'idea di una crociata in Oriente, avendo sin dal 1074 proget­tato di recarsi personalmente, alla testa di un grande esercito, per liberare il Santo Sepolcro conquistato  dai Turchi Selgiucidi.