BENEDETTO XVI
DOCUMENTI
Notificazione della
Congregazione per la Dottrina della Fede sul libro
"Jesus Symbol of God"
Scritto da Padre Roger Haight, S. J.
pubblicata nell'edizione quotidiana del 7-8 febbraio de "L'Osservatore Romano"
in lingua italiana.
Introduzione
La Congregazione per la Dottrina della Fede, dopo uno studio
accurato, ha giudicato che il libro "Jesus Symbol of God" (Maryknoll: Orbis
Books, 1999) di Padre Roger Haight S.J. contiene gravi errori dottrinali nei
confronti di alcune fondamentali verità di fede. È stato pertanto deciso di
pubblicare in proposito la presente Notificazione, che conclude la relativa
procedura d’esame.
Dopo una prima valutazione da parte di esperti, si decise di affidare
direttamente il caso all'Ordinario dell’Autore. Il 14 febbraio 2000 fu trasmessa
una serie di "Osservazioni" a Padre Peter-Hans Kolvenbach, Preposito
Generale della Compagnia di Gesù, invitandolo a far conoscere all’Autore gli
errori presenti nel libro, e chiedendogli di sottoporre i necessari chiarimenti
e rettifiche al giudizio della Congregazione per la Dottrina della Fede (cfr "Regolamento
per l’esame delle dottrine", cap. II).
La risposta di Padre Roger Haight S.J., presentata il 28 giugno 2000, né
chiariva né rettificava gli errori segnalati. Per tale motivo, e tenendo anche
conto del fatto che il libro era abbastanza diffuso, fu deciso di procedere ad
un esame dottrinale (cfr "Regolamento per l’esame delle dottrine", cap.
III), prestando particolare attenzione al metodo teologico dell’Autore.
Dopo la valutazione dei teologi Consultori della Congregazione per la Dottrina
della Fede, la Sessione Ordinaria del 13 febbraio 2002 confermò che "Jesus
Symbol of God" conteneva affermazioni erronee, la divulgazione delle quali
era di grave danno ai fedeli. Si decise pertanto di seguire la "procedura
d’urgenza" (cfr "Regolamento per l’esame delle dottrine", cap. IV).
Al riguardo, conformemente all’art. 26 del "Regolamento per l’esame delle
dottrine”, il 22 luglio 2002 fu trasmesso al Preposito Generale della
Compagnia di Gesù l’elenco delle affermazioni erronee e una valutazione generale
della visione ermeneutica del libro, chiedendogli di invitare Padre Roger Haight
S.J. a consegnare, entro due mesi utili, una chiarificazione della sua
metodologia ed una correzione, in fedeltà all’insegnamento della Chiesa, degli
errori contenuti nel suo libro.
La risposta dell’Autore, consegnata il 31 marzo 2003, fu esaminata dalla
Sessione Ordinaria della Congregazione, l’8 ottobre 2003. La forma letteraria
del testo era tale da sollevare dubbi sulla sua autenticità, se fosse cioè
veramente una risposta personale di Padre Roger Haight S.J.; si chiese pertanto
una sua risposta firmata.
Tale risposta sottoscritta giunse il 7 gennaio 2004. La Sessione Ordinaria della
Congregazione il 5 maggio 2004 la prese in esame e ribadì il fatto che il libro
"Jesus Symbol of God" conteneva affermazioni contrarie alle verità della
fede divina e cattolica appartenenti al primo comma della "Professio Fidei",
riguardanti la preesistenza del Verbo, la divinità di Gesù, la Trinità, il
valore salvifico della morte di Gesù, l’unicità e l’universalità della
mediazione salvifica di Gesù e della Chiesa, e la risurrezione di Gesù. La
valutazione negativa riguardò anche l’uso di un metodo teologico improprio. Si
ritenne, quindi, necessaria la pubblicazione di una Notificazione in proposito.
I. Metodo teologico
Nella Prefazione del suo libro, "Jesus Symbol of God", l’Autore afferma
che oggi la teologia dovrebbe essere realizzata in dialogo con il mondo
postmodemo, ma dovrebbe anche "rimanere fedele alla rivelazione originaria ed
alla costante tradizione" (p. xii), nel senso che i dati della fede
costituiscono la norma e il criterio per l’ermeneutica teologica. Egli afferma
anche che si deve stabilire una "correlazione critica" (cfr pp. 40-47) tra
questi dati e le forme e le qualità del pensiero postmodemo, caratterizzato in
parte da una storicità radicale e da una coscienza pluralistica (cfr pp. 24,
330-334): "La tradizione deve essere criticamente recepita nella situazione di
oggi" (p. 46).
Questa "correlazione critica", però, si traduce, di fatto, in una
subordinazione dei contenuti della fede alla loro plausibilità ed
intelligibilità nella cultura postmodema (cfr pp. 49-50, 127, 195, 241, 249,
273-274, 278-282, 330-334). Si afferma, per esempio, che a causa dell’odierna
coscienza pluralistica, "non si può continuare ad affermare ancora [...] che il
cristianesimo sia la religione superiore o che Cristo sia il centro assoluto al
quale tutte le altre mediazioni storiche sono relative. [...] Nella cultura
postmodema è impossibile pensare [...] che una religione possa pretendere di
essere il centro al quale tutte le altre devono essere ricondotte" (p. 333).
Per quanto riguarda, in particolare, il valore delle formule dogmatiche,
specialmente cristologiche, nel contesto culturale e linguistico postmoderno,
diverso da quello in cui furono elaborate, l’Autore afferma che esse non vanno
trascurate, ma neppure acriticamente ripetute perché "nella nostra cultura non
hanno lo stesso significato di quando furono elaborate. [...] Pertanto, si deve
fare riferimento ai Concili classici ed anche interpretarli esplicitamente per
il nostro presente" (p. 16). Di fatto, però, questa interpretazione non si
concretizza in proposte dottrinali che trasmettono il senso immutabile dei dogmi
inteso dalla fede della Chiesa, né li chiariscono, arricchendone la
comprensione. L’interpretazione dell’Autore risulta essere, invece, una lettura
non solo diversa, ma contraria al vero significato dei dogmi.
Per quanto riguarda, in particolare, la cristologia, l’Autore afferma che, al
fine di superare un "ingenuo positivismo di rivelazione" (p. 173, n. 65), essa
dovrebbe essere iscritta nel contesto di una "teoria generale della religione in
termini di epistemologia religiosa" (p. 188). Un elemento fondamentale di questa
teoria sarebbe il simbolo, quale concreto mezzo storico: una realtà creata (ad
es. una persona, un oggetto o un evento) che fa conoscere e rende presente
un’altra realtà, che è allo stesso tempo all’interno e distinta dal mezzo
stesso, come la realtà trascendente di Dio, a cui essa rimanda (cfr pp.
196-198). Il linguaggio simbolico, strutturalmente poetico, immaginativo e
figurativo (cfr pp. 177, 256), esprimerebbe e produrrebbe una determinata
esperienza di Dio (cfr p. 11), ma non fornirebbe informazioni oggettive su Dio
stesso (cfr p. 9, 210, 282, 471).
Queste posizioni metodologiche conducono ad un’interpretazione gravemente
riduttiva e fuorviante delle dottrine della fede, dando luogo ad affermazioni
erronee. In particolare, l’opzione epistemologica della teoria del simbolo, così
come viene intesa dall’Autore, mina alla base il dogma cristologico che, a
partire dal Nuovo Testamento, proclama che Gesù di Nazaret è la persona del
Figlio/Verbo divino fattasi uomo (1).
II. La preesistenza del verbo
L’impostazione ermeneutica di partenza conduce l’Autore anzitutto a non
riconoscere nel Nuovo Testamento la base per la dottrina della preesistenza del
Verbo, neppure nel prologo di Giovanni (cfr pp. 155-178), ove, a suo dire, il
Logos dovrebbe essere inteso in senso puramente metaforico (cfr p. 177).
Inoltre, egli legge nel pronunciamento del Concilio di Nicea solo l’intenzione
di affermare "che niente di meno che Dio era ed è presente e all’opera in Gesù"
(p. 284; cfr p. 438), ritenendo che il ricorso al simbolo "Logos" sarebbe da
considerarsi semplicemente come presupposto (2), e perciò non oggetto di
definizione, e infine non plausibile nella cultura postmodema (cfr p. 281; 485).
Il Concilio di Nicea, afferma l’Autore, "utilizza la Scrittura in un modo che
oggi non è accettabile, e cioè come una fonte di informazioni direttamente
rappresentativa difatti o di dati oggettivi, circa la realtà trascendente" (p.
279). Il dogma di Nicea non insegnerebbe, pertanto, che il Figlio o il Logos
eternamente preesistente sarebbe consustanziale al Padre e da Lui generato.
L’Autore propone "una cristologia dell’incarnazione, nella quale l’essere umano
creato o la persona di Gesù di Nazaret è il simbolo concreto che esprime la
presenza nella storia di Dio come Logos" (p. 439).
Questa interpretazione non è conforme al dogma di Nicea, che afferma
intenzionalmente, anche contro l’orizzonte culturale del tempo, la reale
preesistenza del Figlio Logos del Padre, incarnatosi nella storia per la nostra
salvezza (3).
III. La divinità di Gesù
La posizione erronea dell’Autore sulla preesistenza del Figlio/Logos di Dio ha
come conseguenza una comprensione altrettanto erronea della dottrina circa la
divinità di Gesù. Egli in verità usa espressioni quali: Gesù "deve essere
considerato divino" (p. 283) e "Gesù Cristo [...] deve essere vero Dio" (p.
284). Si tratta, tuttavia di affermazioni che vanno intese alla luce della sua
posizione su Gesù quale "mediazione" simbolica ("medium"): Gesù sarebbe "una
persona finita" (p. 205), "una persona umana" (p. 296) e "un essere umano come
noi" (p. 205; 428). Il "vero Dio e vero uomo" andrebbe perciò reinterpretato,
secondo l’Autore, nel senso che "vero uomo" significherebbe che Gesù sarebbe un
essere umano come tutti gli altri" (p. 259), "un essere umano e una creatura
finita" (p. 262); mentre "vero Dio" significherebbe che l’uomo Gesù, in qualità
di simbolo concreto, sarebbe o medierebbe la presenza salvifica di Dio nella
storia (cfr pp. 262; 295): solo in questo senso egli potrebbe essere considerato
come "veramente divino o consustanziale con Dio" (p. 295).
La "situazione postmoderna in cristologia", aggiunge l’Autore, "comporta un
cambiamento di interpretazione che va al di là della problematica di Calcedonia"
(p. 290), precisamente nel senso che l’unione ipostatica, o "enipostatica",
sarebbe da intendere come "l’unione di niente di meno che Dio come Verbo con la
persona umana Gesù" (p. 442).
Questa interpretazione della divinità di Gesù è contraria alla fede della
Chiesa, che crede in Gesù Cristo, Figlio eterno di Dio, fattosi uomo, così come
è ripetutamente confessato in vari concili ecumenici e nella costante
predicazione della Chiesa (4).
IV. La Santissima Trinità
Come conseguenza della suddetta interpretazione dell’identità di Gesù Cristo,
l’Autore sviluppa una dottrina trinitaria erronea. A suo giudizio
"l’insegnamento del Nuovo Testamento non deve essere interpretato alla luce
delle successive dottrine di una Trinità immanente" (p. 474). Queste sarebbero
da considerare l’esito di una inculturazione successiva, che avrebbe portato ad
ipostatizzare, vale a dire, a ritenere come "entità reali" in Dio, i simboli
"Logos" e "Spirito" (cfr p. 48l), che in quanto "simboli religiosi", sarebbero
metafore di due diverse mediazioni storico-salvifiche dell’uno ed unico Dio:
quella esteriore, storica, attraverso "il simbolo Gesù"; quella
interiore, dinamica, compiuta dalla comunicazione di Dio "come” Spirito (cfr
p. 484).
Una simile visione, corrispondente alla teoria dell’esperienza religiosa in
generale, porta l’Autore ad abbandonare la corretta comprensione della Trinità
stessa, interpretata "come una descrizione di una differenziata vita interiore
di Dio" (p. 484). Conseguentemente, "una nozione di Dio come comunità, l’idea di
ipostatizzare le differenziazioni in Dio e di chiamarle persone, in modo tale
che esse siano in reciproca comunicazione dialogica, vanno contro il punto
principale della dottrina stessa" (p. 483), e cioè "che Dio è uno ed unico" (p.
482).
Questa interpretazione della dottrina trinitaria è erronea e contraria alla fede
circa l’unicità di Dio nella Trinità delle Persone, che la Chiesa ha proclamato
e confermato in numerosi e solenni pronunciamenti (5).
V. Il valore salvifico della morte di Gesù
Nel libro "Jesus Symbol of God" l’Autore asserisce che "l’interpretazione
profetica" spiegherebbe nel modo migliore la morte di Gesù (cfr p. 86, n. 105).
Afferma, inoltre, che non sarebbe necessario "che Gesù abbia considerato se
stesso come un salvatore universale" (p. 211) e che l’idea della morte di Gesù
come "una morte sacrificale, espiatoria e redentiva" sarebbe solo il risultato
di una graduale interpretazione dei suoi seguaci alla luce dell’Antico
Testamento (cfr p. 85). Si afferma anche che il linguaggio ecclesiale
tradizionale "di Gesù che soffre per noi, che si offre in sacrificio a Dio, che
ha accettato di subire la punizione per i nostri peccati, o di morire per
soddisfare la giustizia di Dio, non ha senso per il mondo di oggi" (p. 241).
Questo linguaggio andrebbe abbandonato perché "le immagini associate a questi
modi di parlare offendono la sensibilità postmoderna e creano una repulsione ed
una barriera ad un apprezzamento positivo di Gesù Cristo" (p. 241).
Tale posizione dell’Autore si oppone in realtà alla dottrina della Chiesa, che
ha sempre riconosciuto in Gesù un’intenzionalità redentrice universale riguardo
alla sua morte. La Chiesa vede nelle affermazioni del Nuovo Testamento, che si
riferiscono specificamente alla salvezza, e in particolare nelle parole
dell’istituzione dell’Eucaristia, una norma della sua fede circa il valore
salvifico universale del sacrificio della croce (6).
VI. Unicità e universalità della mediazione salvifica di Gesù e della Chiesa
Per quanto riguarda l’universalità della missione salvifica di Gesù, l’Autore
afferma che Gesù sarebbe "normativo" per i cristiani, ma "non-costitutivo" per
le altre mediazioni religiose (p. 403). Afferma, inoltre, che "solo Dio opera la
salvezza e la mediazione universale di Gesù non è necessaria" (p. 405): infatti
"Dio agisce nella vita degli uomini in diversi modi al di là di Gesù e della
realtà cristiana" (p. 412).
L’Autore insiste sulla necessità di passare dal cristocentrismo al teocentrismo,
che "elimina la necessità di legare la salvezza di Dio solamente a Gesù di
Nazaret" (p. 417). Per quanto riguarda la missione universale della Chiesa, egli
ritiene che sarebbe necessario avere "la capacità di riconoscere altre religioni
come mediazioni della salvezza di Dio allo stesso livello del cristianesimo" (p.
415). Inoltre, per lui "è impossibile nella cultura postmoderna pensare che
[...] una religione possa pretendere di essere il centro al quale tutte le altre
devono essere ricondotte. Questi miti o concezioni metanarrative sono
semplicemente superate" (p. 333).
Questa posizione teologica nega fondamentalmente la missione salvifica
universale di Gesù Cristo (cfr At 4, 12; 1 Tim 2, 4-6; Gv 14, 6) e, di
conseguenza, la missione della Chiesa di annunciare e comunicare il dono di
Cristo salvatore a tutti gli uomini (Mt 28, 19; Mc 16, 15; Ef 3, 8-11), entrambe
testimoniate con chiarezza dal Nuovo Testamento e proclamate sempre dalla fede
delta Chiesa, anche in documenti recenti (7).
VII. La risurrezione di Gesù
La presentazione che l’Autore fa della risurrezione di Gesù è guidata dalla sua
concezione del linguaggio biblico e teologico come "simbolico di un’esperienza
che è storicamente mediata”(p. 131) e dal principio che "ordinariamente non si
dovrebbe supporre che sia accaduta nel passato una cosa oggi impossibile" (p.
127). Così intesa, la risurrezione è presentata come l’affermazione che "Gesù è
ontologicamente vivo, come un individuo nella sfera di Dio [...], la
dichiarazione di Dio che la vita di Gesù è una vera rivelazione di Dio e
un’autentica esistenza umana" (p. 151; cfr p. 124).
La risurrezione è descritta come "una realtà trascendente che può essere
riconosciuta nel suo valore solamente da un atteggiamento di fede e di speranza"
(p. 126). I discepoli, dopo la morte di Gesù, si sarebbero ricordati ed
avrebbero riflettuto sulla sua vita e il suo messaggio, particolarmente sulla
rivelazione di Dio come buono, misericordioso, preoccupato dell’essere umano e
della salvezza. Questo ricordarsi — del fatto che "ciò che Dio ha iniziato
nell’amore, a causa della illimitatezza di quell’amore, continua ad esistere in
quell’amore sopravvivendo perciò al potere ed alla definitività della morte" (p.
147) insieme con un intervento di Dio come Spirito, progressivamente fece
nascere questa nuova fede nella risurrezione, e cioè che Gesù era vivo ed
esaltato nella potenza salvifica di Dio (cfr p. 146).
Inoltre, secondo l’interpretazione dell’Autore, "la storicità della tomba vuota
e i racconti delle apparizioni non sono essenziali alla fede-speranza nella
risurrezione" (p. 147, n. 54; cfr pp. 124, 134). Piuttosto, questi racconti
sarebbero "modi di esprimere e di insegnare il contenuto di una fede già
formatasi" (p. 145).
L’interpretazione dell’Autore conduce ad una posizione incompatibile con la
dottrina della Chiesa. Essa è elaborata sulla base di presupposti erronei e non
sulla base delle testimonianze del Nuovo Testamento, secondo cui le apparizioni
del Risorto e la tomba vuota sono il fondamento della fede dei discepoli nella
risurrezione di Cristo e non viceversa.
Conclusione
Nel rendere pubblica questa Notificazione, la Congregazione per la Dottrina
della Fede si sente obbligata a dichiarare che le suddette affermazioni
contenute nel libro "Jesus Symbol of God" di Padre Roger Haight S.J. sono
da qualificare come gravi errori dottrinali contro la fede divina e cattolica
della Chiesa. Di conseguenza, è vietato all’Autore l’insegnamento della teologia
cattolica finché le sue posizioni non siano rettificate così da essere in piena
conformità con la dottrina della Chiesa.
Il Sommo Pontefice Giovanni Paolo II nell’Udienza concessa al sottoscritto
Cardinale Prefetto, ha approvato la presente Notificazione, decisa nella
Sessione Ordinaria di questa Congregazione, e ne ha ordinato la pubblicazione.
Roma, dalla Sede della Congregazione per la Dottrina della Fede, il 13 dicembre
2004, Memoria di S. Lucia, Vergine e Martire.
+ JOSEPH Card. RATZINGER
Prefetto
+ANGELO AMATO, S.D.B.
Arcivescovo tit. di Sua
Segretario
1) Cfr Concilium Nicaenum, "Professio fidei": DH 125; Concilium Chalcedonense, "Professio
fidei": DH 301, 302; Concilium Constantinopolitanum II, "Canones": DH 424, 426.
2) L’autore parla di "ipostatizzazione" e di "ipostasi" del Logos e dello
Spirito: intende cioè dire che le "metafore" bibliche "Logos" e "Spirito"
successivamente sarebbero diventate "entità reali" nel linguaggio della Chiesa
ellenistica (cfr p. 475).
3) Cfr Concilium Nicaenum, "Professio fidei": DLI 125. La confessione nicena,
riconfermata in altri concili ecumenici (cfr Concilium Constantinopolitanum I, "Professio
fidei": DH 150; Concilium Chalcedonense, "Professio fidei": DH 301, 302),
costituisce la base delle professioni di fede di tutte le confessioni cristiane.
4) Cfr Concilium Nicaenum, "Professio fidei":DH 125; Concilium
Constantinopolitanum I, "Professio fidei": DH 150; Concilium Chalcedonense, "Professio
fidei": DH 301, 302.
5) Cfr Concilium Constantinopolitanum I, "Professio fidei": DH 150; "Quicumque":
DLI 75; Synodus Toletana XI, "Professio fidei": DH 525-532; Synodus Toletana XVI,
"Professio fidei": DH 568-573; Concilium Lateranense IV, "Professio fidei": DH
803-805; Concilium Florentinuin, "Decretum pro Iacobitis": DLI 1330-1331;
Condilium Vatieanum Il, Const. Dogm. "Lumen gentium", nn. 2-4.
6) Cfr Concilium Nicaenum, "Professio fidei": DH 125; Concilium Tridentinum, "Decretum
de iustificatione": DH 1522, 1523; "De poenitentia": DH 1690; "De Sacrificio
Missae": DH 1740; Concilium Vaticanum LI, Const. Dogm. "Lumen gentium", nn. 3,
5, 9; Const. Pastor. "Gaudium et spes", n. 22; Ioannes Paulus II, Litt. Encycl.
"Ecclesia de Eucharistia", n. 12.
7) Cfr Innocentius XI, Const. "Cum occasione", n. 5: DH 2005; Sanctum Officium,
Decr. "Errores Iansenistaruni", n. 4: DH 2304; Concilium Vaticanum II, Const.
Dogm. "Lumen gentium", n. 8; Const. Pastor. "Gaudium et spes", n. 22; Decr. "Ad
gentes", n. 3; Ioannes Paulus Il, Litt. Encycl. "Redemptoris missio", nn. 4-6;
Congregatio pro Doctrina Fidei, Decl. "Dominus Iesus", nn. 13-15. Per quanto
riguarda l’universalità della missione della Chiesa cfr "Lumen gentium", nn. 13,
17; "Ad gentes", n. 7; "Redemptorìs missino", nn. 9-11; "Dominus Iesus", nn.
20-22.