Joseph Ratzinger
nasce a Marktl am Inn, nella diocesi di Passau, in Baviera, il 16 aprile
1927, in una famiglia di agricoltori, poco facoltosa ma molto devota.
Studia filosofia e teologia all’università di Monaco e a 24 anni è
ordinato sacerdote.
Nel 1977,
a soli 50 anni, Paolo VI lo nomina prima arcivescovo di München und
Freising poi, a distanza di pochi mesi, cardinale. Agli inizi degli anni
Ottanta Wojtyla lo chiama a guidare la Congregazione per la Dottrina
della fede. Dal 2002 è decano del Collegio cardinalizio. Ratzinger, fino
al conclave, è stato anche presidente della Pontificia commissione
biblica e della ontificia commissione teologica internazionale.
Guardiano
intransigente del dogma cattolico, Ratzinger è contrastato dai
cattolici progressisti. Dal 1981 ad oggi i suoi «no» sono innumerevoli:
no alla teologia della liberazione, no al sacerdozio femminile, no al
matrimonio dei preti, non all’omosessualità, no alla Turchia in Europa,
no persino anche alla musica rock poiché «espressione di passioni
elementari» e veicolo di messaggi satanici. Ha, poi, definito la
normativa che consente l’aborto una «cultura della morte» e ha messo un
freno al dialogo interreligioso con il documento «Dominus Jesus».
A lui però si
deve la redazione del catechismo ecumenico pubblicato nel 1992.
Qualcuno in Germania lo ha accusato di avere un passato di un
ex-nazista, poiché Ratzinger nel volume autobiografico di «Memorie
1927-1977» racconta di quando sia lui che suo fratello furono costretti
ad arruolarsi nella Gioventù nazista (ma all’epoca era obbligatorio). E’
lì che parla di alcuni aneddoti della vita familiare durante il Terzo
Reich. Negli ultimi anni il Decano dei cardinali aveva in più occasioni
mostrato il desiderio di essere sciolto dall’impegno di Prefetto della
congregazione e di rientrare in patria: «Questa vita è molto faticosa.
Aspetto con ansia il momento in cui potrò ricominciare a scrivere
libri», aveva detto Ratzinger in un’intervista di alcuni anni fa. Ma
Wojtyla non lo aveva mai voluto assecondare per non perdere un
validissimo collaboratore, sul quale poteva contare non solo per
l’amicizia personale ma anche per la vasta cultura.