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Il
presidente dell’Uruguay, Josè Mujica, ha spiegato perché sostiene e approva
questa riforma: il proibizionismo e la lotta senza quartiere a livello
continentale e mondiale contro il commercio delle droghe non sono riusciti a
estirpare questo “vizio sociale”. Occorre combattere le droghe
legalizzandone l’uso e statalizzando la distribuzione regolamentata di
“droghe leggere”. Alle persona con più di 18 anni sono permesse al massimo
40 sigarette di marijuana al mese, i consumatori che superano tale quantità
saranno costretti a sottoporsi a trattamento riabilitativo. La nuova legge è
approvata solo dal 38% e condannata dal 62% degli uruguayani, ma la riforma
è stata varata con 50 voti a favore su un totale di 96 seggi dalla Camera
dei deputati. L’opposizione ha tentato di ostacolare questa operazione, ma
il “Frente Amplio”, coalizione di sinistra al governo, ha approvato il
disegno di legge; e al Senato i filogovernativi hanno una buona maggioranza.
Lo Stato “assumerà il controllo e la regolamentazione” dell’intero ciclo
produttivo della cannabis e dei suoi prodotti, dall’importazione dei semi
delle piante fino alla commercializzazione della marijuana, che verrà
venduta al consumatore attraverso le farmacie.
Così l’Uruguay, dopo
aver depenalizzato l’aborto e approvato, primo fra i paesi latino-americani,
il matrimonio fra i “gay”, è il primo paese al mondo che liberalizza la
droga, in modo più ampio di quanto hanno fatto Olanda e California. La
storia di questo piccolo paese sud-americano spiega, almeno in parte, questo
primato poco appetibile. Vi sono stato nel 1992, invitato per una relazione
sul rapporto ecclesiale fra Italia e America Latina, ad un congresso delle
Chiese latino-americane. Dall’inizio del Novecento fino a dopo la seconda
guerra mondiale, l’Uruguay era definito “la Svizzera del Sudamerica” e “Il
paradiso degli emigranti”. Un paese di solida democrazia, senza analfabeti,
economicamente prospero, con leggi sociali molto avanzate, più di quelle
dell’Europa a quel tempo. Oggi è un popolo deluso, precipitato in basso
nella classifica del reddito pro capite, dopo aver occupato i primi posti
per più di mezzo secolo. Come per la vicina Argentina, la prosperità
dell’Uruguay era basata sulle esportazioni di grano, prodotti della
pastorizia e carne di manzo. Dal 1950 in avanti è scoppiata la crisi di
questi prodotti, perché Stati Uniti ed Europa hanno cominciato ad essere
autosufficienti, tagliando le importazioni. Lo “stato sociale” uruguayano è
crollato, aprendo la strada alla guerriglia dei “tupamaros” e ad una crudele
dittatura militare (1973-1985).
Oggi il paese sta
riprendendosi, ma nel 1992 ho viaggiato, accompagnato dai missionari
italiani OMI (Oblati di Maria Immacolata) fino a Rivera, Tacuarembo, Paso de
los Toros, Cardona, Mercedes e Punta del Este, per incontrare missionari
italiani e ovunque mi hanno detto che il paese non ha ancora trovato una via
autonoma allo sviluppo e attraversa una profonda crisi d’identità, che è
anche quella delle ideologie dominanti dall’indipendenza ad oggi: l’ateismo
e il socialismo. Va ricordato che l’Uruguay, esteso due terzi dell’Italia
con soli 3,5 milioni di abitanti (il 50% dei quali vivono a Montevideo!), è
una sconfinata prateria a perdita d’occhio (la “pampa”), con acque e terre
fertili ma quasi disabitata. L’Uruguay è nato nel 1828 come stato cuscinetto
fra Argentina e Brasile (cioè fra spagnoli e portoghesi) con soli 60.000
abitanti, che alla fine del secolo erano già 600.000 per i molti immigrati
dall’Europa spesso scampati alle repressioni delle monarchie europee e della
restaurazione dopo la Rivoluzione francese: carbonari, socialisti,
repubblicani, radicali, rivoluzionari di ogni genere avevano fatto
dell’Uruguay il loro rifugio, fra i quali anche Giuseppe Garibaldi. Questo
spiega l’irrequietezza politica del paese, tormentato da numerose guerre
civili, e il suo radicalismo progressista e anticlericale. All’inizio del
Novecento il presidente José Ordònez fonda uno stato politicamente
democratico e socialmente avanzato: abolizione della pena di morte (1905),
insegnamento e assistenza sanitaria gratuiti, pensione sociale ai
nullatenente sopra i 60 anni, legge sul divorzio favorevole alla donna, il
“Codice dei diritti dei lavoratori” (1920) che era considerato un modello
dai paesi europei dopo la prima guerra mondiale.
Lo “Stato
assistenziale” dell’Uruguay ha funzionato bene fino agli anni cinquanta del
Novecento, quando le esportazioni sono crollate e il paese, pur con forte
tradizione socialista e progressista, è rimasto immobile, bloccato dalla
mentalità conservatrice e dalla “crescita zero” demografica. Un piemontese,
Rolando Passani che ha una piccola azienda tessile, mi diceva: “Quando sono
immigrato in Uruguay nel 1953 con moglie e tre figli piccoli, questo paese
era molto più avanzato della nostra Italia, politicamente ed economicamente.
C’era un’atmosfera di libertà e di vivacità culturale che a me, dopo il
fascismo, la guerra e le lotte ideologiche del nostro dopoguerra, mi sembrò
straordinaria. Invece, negli anni sessanta il mondo è cambiato e qui tutto è
rimasto immobile, per cui oggi molta gente vive in miseria e senza lavoro”.
In questo panorama,
la povertà del popolo uruguayano che più mi ha colpito è quella spirituale.
Un popolo scoraggiato, abbattuto, senza speranza e senza gioia di vivere.
Oltre alla crisi economica soffre anche una forte crisi di identità
nazionale. C’è un aspetto della tradizione e cultura uruguayana che spiega
molte cose: l’ateismo e l’anticlericalismo che dominano la cultura e le
istituzioni. L’Uruguay è il solo paese dell’America Latina nel quale un buon
numero di persone non sanno che il 25 dicembre si celebra il Natale di Gesù
Cristo. Infatti nel Calendario nazionale e nelle TV e giornali il Natale è
segnato come “La Fiesta de los Ninos”, la Pasqua è “La Fiesta del Turismo”,
l’8 dicembre “El dia de la Playa” (Il giorno della spiaggia quando inizia la
stagione balneare). Dal 1919 il governo ha abolito i nomi religiosi di città
e paesi: Santa Isabel è diventata Paso de los Toros (sebbene gli abitanti
continuino a chiamarsi Isabeliti), San José è “Primero de Mayo”; nei
giornali Dio si scrive dio, con la minuscola, la Costituzione proibisce
tutti i segni religiosi in luogo pubblico.
La Chiesa è stata
pesantemente penalizzata e oggi la maggioranza della popolazione è senza
assistenza religiosa, specie nelle campagne, per mancanza di sacerdoti. Nel
1992 a Montevideo la pratica religiosa, secondo dati ufficiali, era dello
0,5%, però nel censimento del 2011 il 54% degli uruguayani si dichiarano
cattolici e il 26% atei. Ricordando la mia visita nel 1992, a Mercedes
incontro tre suore italiane “Serve della Divina Provvidenza” di Catania,
alle quali è affidata una parrocchia di 10.000 abitanti, con un sacerdote
che viene a celebrare una Messa alla domenica e nient’altro. “Abbiamo buoni
rapporti con la gente – mi dice la superiora Maria Aurelia Ognibene – ci
accettano volentieri nelle case. Il nostro lavoro è di visitare tutti, in
città e nella campagna per farci conoscere e parlar loro della fede e della
vita cristiana. C’è un’ignoranza spaventosa. Ad esempio, a noi chiedono
l’assoluzione dei peccati. Della religiosità popolare c’è rimasto solo il
battesimo e due o tre processioni l’anno. Non esiste il funerale religioso,
mentre è abbastanza comune la Messa per i defunti. Il problema morale è
grave. Ad esempio, le ragazze che vanno con uomini anche anziani per poter
mangiare tutti i giorni, qui è considerata cosa normale. Manca assolutamente
un sacerdote”.
Da più d’un secolo le
forze culturali e politiche dominanti hanno lanciato campagne per creare
l’”uomo nuovo” attraverso l’ateismo, insegnato nelle scuole, e il
socialismo: “Con la ragione e senza dio avremo un uomo felice” dice uno
slogan tradizionale. Fin dall’Ottocento l’Uruguay è stato un paese dominato
dalla Massoneria. Padre Quinto Regazzoni, dei Dehoniani, mi dice: “Sono in
Uruguay da 13 anni e ho visto il fallimento del razionalismo e della
modernità senza Dio. Qui la religione è veramente esclusa dalla vita
sociale, politica, culturale, scolastica e si vede fin troppo. Lo dimostrano
le famiglie disunite: sette matrimoni su dieci finiscono nel divorzio,
l’Uruguay ha la più alta percentuale di suicidi in America Latina, dove in
genere il popolo è cordiale, gioioso, ride facilmente, mentre in Uruguay c’è
molta freddezza. Il paese è demograficamente depresso dall’inizio del
Novecento, solo la massiccia immigrazione dall’Europa ha fatto crescere di
poco la popolazione”.
I Dehoniani hanno a
Montevideo un santuario della Madonna, frequentato da un buon numero di
pellegrini. Mi dicevano che una notte hanno visto un’auto di lusso fermarsi
davanti alla Grotta di Lourdes e scendere un uomo e una donna che si
inginocchiano davanti a Maria. Un padre va a vedere e si trova davanti ad
una delle più alte personalità dello Stato, che gli dice: “Per favore non
dica a nessuno che mi ha visto qui. Siamo venuti per chiedere alla Madonna
una grande grazia per nostro figlio. Se si venisse a sapere, la mia carriera
politica sarebbe finita”. Questo è quel che ho visto nel 1992, quando la
situazione religiosa stava già cambiando in meglio, anche grazie ai due
coraggiosi viaggi compiuti da Giovanni Paolo II nel 1987 e nel 1988. Mi
dicono che oggi la situazione religiosa è migliorata. Ma a me basta quel che
ho visto nel 1992, per giudicare come si riduce un paese e un popolo di
immigrati, figli o nipoti di immigrati (il 40% di italiani!), in maggioranza
formato da cattolici battezzati, con scarsa assistenza religiosa e con la
cultura e politica nazionale che sono dichiaratamente atee e anticlericali.
Piero Gheddo
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