Certo, sarebbe il tutto molto più facile commentare l’attacco terroristico a Charlie Hebdo come stanno facendo i banali opinionisti occidentali: “viva la libertà di stampa”, “l’islam è sinonimo di violenza” e partecipando alla, altrettanto banale, reazione dei social network con le matite contro i mitra. Ma le cose, come sempre, sono più complesse e il nostro è un duplice giudizio.
NOI NON SIAMO CHARLIE HEBDO.
Innanzitutto condanniamo, senza nessun tipo di giustificazione, l’uccisione dei vignettisti francesi. Tuttavia vogliamo anche dire che noi non siamo Charlie Hebdo. Questo è il titolo scelto dal “New York Times”: la redazione del giornale satirico, ha scritto l’editorialista David Brooks, in America «sarebbe stata accusata di incitamento all’odio». Il britannico “Financial Times” ha aggiunto: «anche se il magazine si ferma poco prima degli insulti veri e propri, non è comunque il più convincente campione della libertà di espressione. Con questo non si vogliono minimamente giustificare gli assassini, che devono essere catturati e giudicati, è solo per dire che sarebbe utile un po’ di buon senso nelle pubblicazioni che pretendono di sostenere la libertà quando invece provocando i musulmani sono soltanto stupidi». «Il nostro giornale evita di pubblicare materiale che di proposito o senza motivo sia offensivo verso gruppi religiosi», ha detto il “Washington Post”. Lo stesso hanno fato i principali quotidiani tedeschi, il direttore di “Die Zeit” ha spiegato: «è prevalsa la linea che non ci debba essere alcun automatismo tra i fatti di Parigi a la pubblicazione che offende il sentimento religioso delle persone». In Italia una firma del “Fatto Quotidiano”, Maurizio Chierici è intervenuto in questo senso: «questo tipo di libertà non può considerare immondizia milioni di musulmani. Si può sorridere graffiando, ma graffiare non vuol dire aggredire con la scompostezza che umilia cultura e religione di chi abita le nostre città» (Chierici sarebbe intervenuto contro le offese ai cristiani? Dubitiamo).
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Questo cosa significa? Che si può e si deve piangere la morte degli umoristi di Charlie Hebdo massacrati dal fanatismo fondamentalista e intollerante, senza automaticamente glorificarli e riflettendo sul fatto che il diritto di satira non può equivalere al diritto di offesa, di blasfemia e, spesso, di sfogo dissacratorio. I giornalisti uccisi erano atei, anarchici e comunisti e usavano la satira come strumento di odio, e non tanto di libertà, verso le fedi e le religioni. Se il presunto “diritto di offesa” va dunque condannato, ricordando che i vignettisti satirici non possono avere più diritti degli altri (dato che sono un reato sia l’offesa che la blasfemia), ancor di più ovviamente va condannato il prezzo che hanno subito per il loro errore. Non è così che si reagisce, è con la riflessione e la vita democratica che si può far capire tutto questo all’intolleranza laicista. Oggi comunque lo spazio va dato al lutto e alla memoria di questi umoristi, la critica alla satira come sfogo antireligioso si potrà fare anche in seguito. Ci uniamo perciò alle parole di Papa Francesco: «Qualunque possa esserne la motivazione, la violenza omicida è abominevole, non è mai giustificabile, la vita e la dignità di tutti vanno garantite e tutelate con decisione, ogni istigazione all’odio va rifiutata, il rispetto dell’altro va coltivato». E’ interessante comunque notare che tutte le religioni, pesantemente offese da Charlie Hebdo, hanno tuttavia reagito all’unanimità condannando senza sconti come «atrocità ingiustificabile» i fatti francesi. Chissà se sarebbe avvenuto il contrario, ricordando che sempre più spesso si parla di “amnesie occidentali” e dei media occidentali rispetto ai cristiani perseguitati.
A questo proposito segnaliamo la strumentalizzazione dell’anticlericalismo laicista occidentale che ha sfruttato questi tragici eventi per invocare l’uccisione della religione e la sparizione dei credenti dalla vita pubblica. Lo ha fatto Oliviero Toscani («Se non ci fossero più le religioni, ci sarebbero molti massacri di meno», ha detto), lo stesso
ha fatto Umberto Eco (ottima risposta su
“Tempi”). Ma è di Paolo Flores D’arcais la tesi più feroce: «La laicità più rigorosa, che esclude Dio, qualsiasi Dio dalla vita pubblica (scuole, tribunali, comizi elettorali, salotti televisivi, ecc.), è perciò l’unica salvaguardia contro l’incubazione di un brodo di coltura clericale che inevitabilmente può diventare pallottola fondamentalista». Ricordiamo al nostalgico Flores D’arcais che nella storia c’è già chi ha provato ad escludere Dio dalla vita pubblica, è stato il signor Joseph Stalin nominando l’ateismo di stato -la religione professata dal direttore di “Micromega”- nella sua Unione Sovietica e propagandando l’ateismo scientifico nelle università. I risultati del fiorire della democrazia sono sotto gli occhi di tutti.
I VERI MUSULMANI NON SONO I TERRORISTI.
Se questa è la prima riflessione, la seconda riguarda il rapporto tra l’Islam e la violenza. Non si può accusare l’islam e i musulmani di fondamentalismo religioso, è una generalizzazione ingiusta, anche quando i terroristi attaccano e discriminano i cristiani in Medio Oriente in nome del loro dio. Non si può chiudere gli occhi sul fatto che sono i musulmani, molto spesso, a difendere i cristiani dagli attacchi dei fondamentalisti, come ha spiegato Shamon Nona, Arcivescovo caldeo di Mosul. Sono gli studiosi musulmani a tradurre il Catechismo cattolico in lingua persiana, è il sindaco musulmano di Nazareth a volere che l’Annunciazione diventi festa civile, è l’ambasciatrice musulmana Sherry Rehman che sarà processata per blasfemia per aver difeso i cristiani e sono i leader musulmani a chiedere scusa ai cristiani per le persecuzioni subite.
L’islam ha certamente un problema al suo interno con la violenza e la tolleranza e lo scontro con la civiltà moderna sarà letale se non affronterà con coraggio tale questione. Ma i veri musulmani non sono i terroristi francesi e questa differenza è fondamentale. Tutti i quotidiani arabi hanno condannato l’attentato francese, così come i musulmani francesi e italiani, vicino a Milano si è svolta una marcia della Pace comune tra musulmani e cristiani. Come ha spiegato il prof. Paolo Branca, docente di Islamistica presso l’Università Cattolica, quello che è accaduto «ha a che vedere con un discorso ideologico e non religioso. Non deve accadere una polarizzazione tra noi e l’islam nel suo complesso». Senza contare che gli stessi musulmani vengono spesso massacrati dai gruppi terroristici islamici.
Questo è anche un motivo per cui Papa Francesco evita di “condannare l’islam” (preferendo parlare di “fondamentalismo religioso”) quando esprime vicinanza ai cristiani perseguitati (abbiamo calcolato che lo fa mediamente almeno una volta ogni quindici giorni), come invece vorrebbero i suoi affannati critici del tradizionalismo/conservatorismo cattolico. Nemmeno Benedetto XVI condannava in generale l’islam quando esprimeva vicinanza ai cristiani perseguitati (alcuni esempi:
18/07/05,
19/04/06,
2/01/11,
25/01/11,
20/10/12 ecc.). Nella Evangelii Gaudium Francesco ha scritto: «tenendo conto della libertà che i credenti dell’Islam godono nei paesi occidentali! Di fronte ad episodi di fondamentalismo violento che ci preoccupano, l’affetto verso gli autentici credenti dell’Islam deve portarci ad evitare odiose generalizzazioni, perché il vero Islam e un’adeguata interpretazione del Corano si oppongono ad ogni violenza». E durante un’intervista recente ha affermato: «tanti islamici sono offesi, dicono: “No, noi non siamo questo. Il Corano è un libro di pace, è un libro profetico di pace. Questo non è islam”. Credo che non si possa dire che tutti gli islamici sono terroristi. Io ho detto al Presidente Erdogan: “Sarebbe bello che tutti i leader islamici parlino chiaramente e condannino quegli atti, perché questo aiuterà la maggioranza del popolo islamico a dire “no”; Tutti abbiamo bisogno di una condanna mondiale, anche da parte degli islamici, che hanno quella identità e che dicano: “Noi non siamo quelli. Il Corano non è questo”. Dobbiamo sempre distinguere qual è la proposta di una religione dall’uso concreto che di quella proposta fa un determinato governo. Bisogna fare questa distinzione, perché tante volte si usa il nome, ma la realtà non è quella della religione». |