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Meriam :«ho dovuto partorire con le gambe incatenate. Per questo mia figlia è nata disabile»

Quella di cui vi parlo oggi non è una storia che fa notizia.  Perchè? Semplice purtroppo Meriam Yahya Ibrahim non è Vladimir Luxuria, non ha nessun legame con il mondo omosessuale, purtroppo non parliamo neanche di una foca altrimenti si sarebbero già movimentati gli ambientalisti, non si tratta di una balena da proteggere dalle baleniere, altrimenti si sarebbe già organizzata una squadriglia per liberarla. No, stiamo parlando di una donna sposata che ha un figlio, incarcerato insieme a lei, e ora anche una bambina avuta in carcere.

 

Chi è Meriam? Ricostruiamolo insieme al sempre più valido sito Tempi.it: Come dicevo prima,  una donna semplice, una donna cristiana, perchè cresciuta dalla madre cristiana dopo che il padre mussulmano se ne era andato quando aveva sei anni. Questa donna ora è stata accusata di apostasia e adulterio.

Innanzitutto dove siamo? Siamo in Sudan e qui la sharia è fonte della legislazione e si applica anche ai non musulmani: nel paese è prevista la pena di morte per apostasia dall’islam (ma non dalle altre religioni all’islam) ed è inoltre vietato alle donne musulmane sposare uomini di altre religioni. 

L’anno scorso, un uomo che ha affermato di essere un parente di Ibrahim, ha denunciato la donna dichiarando che era stata cresciuta come una musulmana e si era poi convertita al cristianesimo. Per questo la giovane, sposata con il cristiano Daniel Wani, è stata anche accusata di “adulterio”, non essendo riconosciuto dalla legge un matrimonio tra una musulmana e un cristiano. In caso di condanna, i suoi due figli sarebbero presi in custodia dallo Stato.

Più volte le autorità le avevano detto che una via di uscita c'era: doveva convertirsi all'Islam, semplice. La donna ha resistito ed è stata costretta a partorire in carcere.

La storia che segue non è interessante come quella di Vladimir Luxuria  arrestata a Sochi dalla polizia russa e rilasciata il giorno seguente. Ma noi ve la raccontiamo lo stesso.

Nonostante diversi testimoni avessero detto che Ibrahim è sempre stata cristiana e non si è mai convertita dall’islam, i giudici hanno condannato la donna. L'avvocato allora ha fatto ricorso, richiedendo che venisse ribaltata la sentenza. Meriam era in cinta di 8 mesi era incatenata per le caviglie e aveva le gambe gonfie. Insieme alla donna dal 17 febbraio c’era anche il figlio di 20 mesi della coppia, Martin.

Il 15 maggio la donna è stata condannata La sua sorte era già stata decisa l’11 maggio da una corte di Khartoum, capitale del Sudan: condannata a morte tramite impiccagione per apostasia e a 100 frustate per adulterio. Poi il giudice Abbas Mohammed Al Khalifa ha sospeso la sentenza e ha proposto a Meriam Yahia Ibrahim una sorta di scambio: «Convertiti all’islam e lasceremo cadere le accuse, facendo finta che non sia successo niente». Le ha dato 72 ore di tempo per pensarci, convinto che la giovane cristiana avrebbe sicuramente colto l’occasione al volo e abiurato. Invece lo scorso 15 maggio, dopo aver intrattenuto un colloquio di 40 minuti con il giudice, Meriam gli ha risposto, quasi scusandosi: «Sono cristiana, non ho mai commesso apostasia e resterò cristiana». Al Khalifa ha incassato il colpo e davanti alla corte ha pronunciato una sentenza sprezzante, chiamando la donna con il suo nome islamico: «Adraf Al Hadi Mohammed Abdullah, ti abbiamo concesso tre giorni per abiurare ma hai deciso di non riconvertirti all’islam. Ti condanno alla morte per impiccagione» se il matrimonio non vale più, i due figli concepiti dalla coppia sarebbero stati illegittimi e dopo la morte della madre sarebbero stati tolti al marito e affidati allo Stato.

Il giorno della sentenza, un gruppo di islamici si sono riuniti fuori dal tribunale: alla notizia della condanna hanno esultato gridando «Allahu Akbar», Dio è grande.

Elnabi, l'avvocato,  è stato minacciato di morte ma ha scelto di non tirarsi indietro, come se la testimonianza di Meriam avesse infuso coraggio anche a lui: «Sono molto spaventato», ha ammesso. «Vivo nella paura, appena sento una porta che si apre o un suono strano in mezzo alla strada mi volto. Ma non potrei mai lasciare questo caso: devo aiutare chiunque sia nel bisogno, anche se questo può costarmi la vita».

Anche il marito di Meriam, «costretto sulla sedia a rotelle», era spaventato. Pensava al figlio che si ammalava di continuo a causa delle cimici che infestano la piccola cella nella quale era rinchiuso da febbraio. Pensava a se stesso, sapendo di «dipendere da mia moglie per tanti aspetti della mia vita quotidiana». Ma soprattutto pensava alla sorte di Meriam, ancora incerta: «Sono così frustrato. Non so che cosa fare. Non mi resta che pregare».

La donna alla fine è stata scagionata in appello, ma la storia non è finita, attualmente è all’ambasciata americana a Khartoum in attesa del passaporto sudanese, è stata costretta a partorire in carcere la sua seconda figlia, Maya e dice «poiché sono stata costretta a partorire in catene, mia figlia è disabile», è la drammatica dichiarazione rilasciata da Meriam Yahya Ibrahim alla Cnn. «Non ero ammanettata ma incatenata per le gambe. Non riuscivo ad aprire le gambe e così le donne mi hanno dovuta alzare dal tavolo. Non ho partorito stesa sul tavolo e mia figlia ha qualcosa, non so se in futuro avrà bisogno di un sostegno per camminare».

Ora Meriam è in attesa dei documenti per lasciare il Sudan per gli Stati Uniti insieme al marito Daniel Wani, ma gli avvocati non li hanno ancora ottenuti. Senza contare che il “fratello” ha aperto una nuova causa per chiedere che venga riconosciuta la loro parentela. «Onestamente, sono davvero infelice. Ho lasciato la prigione per mettere insieme i miei figli e sistemarmi ma mi sono ritrovata di nuovo in prigione e ora protestano contro di me nelle strade».

Una semplice storia banale? Per me è qualcosa di più...

 

Massimiliano Salerno